Recensione di Salvatore Argiolas
Autore: Dominique Manotti
Traduzione: Francesco Bruno
Editore: Sellerio
Genere: Noir, polar
Pagine: 296
Anno di pubblicazione: 2020
Sinossi. Nelle toilette dell’ippodromo parigino di Longchamp, la polizia trova il corpo di una giovane donna sgozzata. È una colombiana, spacciatrice di droga e informatrice. Per il commissario Daquin, riguardo alla ragazza troppi particolari non coincidono, forse non si tratta di una semplice «cavalla». Strani movimenti nuovi si sono registrati da poco negli ambienti del narcotraffico, che prospettano piste che arrivano chissà dove. «Si sente puzza di marcio a un chilometro di distanza» intorno a quell’assassinio. Théodore Daquin, protagonista di questa fortunata serie, sa di vivere in un mondo corrotto e non se ne stupisce, pronto a sfruttare ogni crepa per raggiungere il proprio obiettivo di giustizia. Il classico poliziotto dei polar francesi, però con una particolarità, è un gay dichiarato. Con la sua squadra deve risalire tutti i segmenti di una contorta filiera criminale che collega gli uffici eleganti dell’alta finanza, le stanze istituzionali della politica, con le fogne del traffico di droga. Attraverso un tramite insolito. E ad ogni snodo, ad ogni omicidio si trova lo stesso antico sodalizio: quattro ex compagni del Sessantotto. Dominique Manotti, forte della competenza di storica dell’economia, costruisce trame serrate e sinuose prese dai misteri del mondo degli affari. La scrittura iperrealistica –frasi brevi, sguardo ad altezza d’uomo, descrizione minuziosa degli spazi e dei gesti – rimuove qualsiasi traccia di moralismo dal tema centrale dei suoi noir: la natura criminale del capitalismo contemporaneo.
Recensione
Il polar è la versione francese del noir americano e se, come scrisse dice uno dei suoi maggiori esponenti Jean-Patrick Manchette, “un buon romanzo noir è un romanzo di critica sociale, racconta vicende criminose, ma cerca di fornire un ritratto di una società in un certo luogo e in un certo momento” non c’è niente di più aderente alla realtà di un polar.
Tra i grandi interpreti del genere assieme a Manchette, Leo Malet, Auguste Le Breton, Serge Quaddruppani, Didier Daeninckx Jean-Claude Izzo & soci si può tranquillamente inserire anche il nome di Dominique Manotti.
Se il polar classico ha come protagonisti sbirri, a volte corrotti, una fauna da bassifondi, balordi ubriachi, ex pugili e gangster di periferia, Dominique Manotti, forte dei studi di economia che insegna all’università, alza il tiro e mette al centro della trama la commistione tra alta finanza, malavita e politica.
La Manotti non dimentica la lezione di Raymond Chandler che nel saggio “La semplice arte del delitto” del 1944, scrisse che bisogna
“restituire il delitto alla gente che lo commette per ragioni vere e solide e non semplicemente per fornire un cadavere ai lettori, e lo fece per compire con mezzi accessibili, non con pistole intarsiate, curaro e pesci tropicali. (…). Lo scrittore realista giallo descrive un mondo in cui i gangster possono governare le nazioni e per poco non governano le città.”.
Fa proprio questo Dominique Manotti nei suoi polar che hanno un palinsesto che ricordano i migliori noir di Manuel Vázquez Montalbán come “I mari del sud” e soprattutto “La solitudine del manager, mettendo a nudo gli inconfessabili rapporti tra criminalità ed economia “pulita” avente come anello di congiunzione il mondo politico.
“Il bicchiere della staffa” è il secondo episodio della saga del commissario Théo Daquin che sino ad ora si snoda su sei romanzi.
Pubblicato nel 1997 è però ambientato nel 1989, durante le indimenticabili giornate della caduta del muro di Berlino e nel pieno del governo di François Mitterand, la cui spregiudicata e cinica visione della politica viene messa sotto accusa anche a costo di qualche anacronismo.
“Ho dato una mano a un imprenditore brillante, un po’ avventuriero.” dice un capitano d’industria, “uno di quegli uomini di cui abbiamo bisogno per dare una spallata ai burocrati, rimodellare Parigi, farne una delle capitali degli affari si scala europea. Forse, a volte, al limite della regolarità. Il fine giustifica i mezzi, come si diceva quand’ero giovane.”
Proprio questo aforisma, falsamente attribuito a Niccolò Machiavelli, che non l’ha mai scritto in questa forma, ci riporta a Mitterand che veniva chiamato “Il fiorentino” per il suo machiavellico pragmatismo senza scrupoli. Ciò viene rimarcato poco dopo;
“Pochi discorsi, con me, Christian, sull’interesse della Francia. Qui non siamo a un congresso del tuo partito.” e ancora “I miei mezzi non mi permetterebbero… Ho comprato delle azioni perché credo alla riconciliazione dei socialisti con l’impresa privata e l’economia di mercato, dopo anni d’incomprensione reciproca. Era un gesto politico.” (…) Oggi non è un delitto arricchirsi illegalmente. Anzi è una dimostrazione d’intelligenza e di buon gusto. Soltanto i mediocri possono rimanere poveri negli anni Ottanta,”
Questa è la cornice storico-politica che fa da sfondo all’inchiesta del commissario Daquin e dalla sua ciurma partendo dall’assassinio di una ragazza colombiana in un ippodromo e che si snoda prevalentemente nell’ambiente ippico per poi espandersi sino a toccare i gangli vitale dello Stato francese e l’Eliseo in particolare.
Proprio al mondo degli allevatori di cavalli è dovuto il titolo originale “À nos chevaux!” reso un po’ incongruamente in italiano con “Il bicchiere della staffa”. “Tra cavallerizzi, quando si brinda, il che accade spesso, si usa dire: Ai nostri cavalli, alle nostre donne, e a chi se li monta.”
Anche se l’indagine è corale con tanti investigatori interessati, il protagonista è indubbiamente Théo Daquin, veramente un gran personaggio. Apertamente omosessuale, giocatore di rugby, “ un metro e ottantacinque di muscoli, faccia quadrata, collo massiccio largo quanto le mascelle, occhi castani, penetranti, giubbotto di di daino di buon taglio, pantaloni screziati beige, scarpe inglesi di pelle fulva”, il commissario calamita su di se tutti gli indizi e malgrado sia coinvolto personalmente nel caso, con tenacia e coraggio, anche superando i limiti della legge, riesce a fare luce su un caso complesso e dalle mille sfaccettature.
Dominique Manotti riesce a restare nei canoni del polar anche se ambisce a dare qualcosa di più, cucendo una vicenda poliziesca sulla denuncia di un gigantesco conflitto di interessi, componendo una sorta di biografia della nazione colta in un periodo di svolta, arricchendo anche la narrazione con un linguaggio sincopato decisamente efficace.
Dominique Manotti
è stata una militante politica e sindacale, e insegna storia economica all’università. Dal 1995, con l’intento esplicito di continuare il suo impegno sociale per altre vie, ha scritto una decina di noir con al centro cospirazioni economico-finanziarie. In Francia, ha ottenuto i principali premi letterari per il giallo: il Prix Mystère de la critique (2002 e 2007) e il Grand Prix de la Littérature Policière (2011). Con questa casa editrice ha pubblicato “Oro nero”(2015),”Il sentiero della speranza” (2016), Le mani su Parigi (2017), Vite bruciate (2018) e Il bicchiere della staffa (2020).
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