Recensione di Elvio Mac
Autore: Giuseppe Fabro
Editore: Rizzoli
Genere: Narrativa italiana
Pagine: 336
Anno di pubblicazione: 2020
Sinossi. Genova, 1964. Hanno vent’anni o poco più, sono senza scrupoli e scalpitano per diventare i padroni della città. Il loro tirocinio è stato la strada: scippi, furti, piccole rapine violente nei caruggi e ora, mentre l’Italia cambia e soffia il vento di nuove rivoluzioni, Caio, Parodi, Criss, Albino, Pumas e Michele sono pronti a dare l’assalto al cielo criminale di Genova, spazzando via la vecchia malavita al ritmo di Beatles e Rolling Stones. La loro è una banda di fratelli, tutti con la stessa violenta brama di emergere ma con un capo riconosciuto: Caio. Il carisma del leader ce l’ha anche Mauro, detto il Moro: nato come gli altri ragazzi nei vicoli, e nell’immediato dopoguerra, perciò frutto delle colpe e delle storie disperate di chi lo ha messo al mondo, forma con Vittorio una coppia criminale diversa, che rispetta le leggi non scritte della strada. Ma quando i percorsi delle due bande si incrociano, tra pestaggi in galera, risse nelle bische e rapimenti messi a segno, la scia di sangue che si lasciano dietro degenera presto in una serrata caccia agli uomini che ha come teatro il cuore della città.
Recensione
Ambientazione insolita quando si parla di malavitosi e delinquenti, si fatica ad immaginare una Genova con i suoi caruggi che non si conosce, ma è quella che traspare da queste pagine dense di violenza e di vite alla deriva. Le caratteristiche di Genova, non entrano particolarmente nella trama, perché questi ragazzi potrebbero essere in ogni città.
Non sono riuscito ad accettare i comportamenti dei protagonisti di questa storia molto ben raccontata, non c’è mai un’ auto analisi, parole di scuse o pentimento, anche se c’è un tentativo di motivare tale indole, con la descrizione delle origini dei problemi di questi ragazzi.
E’ chiaro che la famiglia è l’incubatrice di futuri giovani criminali, ma le violenze gratuite sono difficili da digerire, narrate con chiarezza ed essenzialità forse fanno ancora più male.
La criminalità giovanile descritta, impressiona per quanto sembri normalità. Volendo fare un parallelo con i nostri tempi, l’argomento è molto attuale, visto che questo problema sociale è sotto osservazione e sta andando verso un livello di emergenza.
Tutti i ragazzi raccontati nella storia, hanno alle spalle una famiglia disgraziata. Genitori colpiti da tragedie ma totalmente incapaci di cambiare rotta, non gli passa neanche per la testa un barlume di legalità. E’ anche vero che per queste persone non esiste un aiuto, pertanto isolamento e delinquenza diventano necessità imprescindibile.
Si parla di emarginazione sociale, dovuta a molti fattori, la provenienza da zone periferiche e povere, l’appartenenza a minoranze etniche, l’incapacità economica per darsi un sostentamento decoroso. Tutto questo, provoca aggregazione di quei soggetti che si sentono colpiti e accumunati da questi problemi, cosicché la solidarietà nel gruppo è totale per contravvenire alle regole.
Sembra che l’unico modo per assumere un’identità all’interno della società, sia quello di delinquere. La ricerca personale è dedicata solo al furto di denaro, alla capacità di rubare auto, alla pianificazione di un nuovo colpo. Una vita nella legalità non è minimamente contemplata, perché per questi giovani, la vita esiste solo nel modo che stanno vivendo, con un’amputazione della coscienza.
Caio e Pumas, così come Vittorio e Mauro, sono amici nella totalità dei problemi, si sostengono in qualsiasi situazione, hanno scopi comuni e li usano per risollevare il loro ego e il loro status sociale,che spesso è condiviso con un parente o il genitore che li ha protetti in qualche modo.
Proprio il ruolo genitoriale è un’altra mancanza, quelli sopravvissuti, sono a conoscenza del tipo di vita che conducono i figli, nonostante questo, non li ostacolano, non li trattengono, sono consapevoli del fatto che da un giorno all’altro potrebbero finire ammazzati o in carcere e gli sta bene così.
L’unica figura propositiva della storia è Don Andrea, un uomo che lascia intravedere una possibilità di cambiamento, cerca in qualche modo di indirizzare uno dei ragazzi, che inizialmente sembrarecepire le buone intenzioni. C’è una diffusa mancanza di speranza e anche quando il bene riesce a fare capolino, il male lo ricaccia da dove è venuto.
Questo aspetto è molto duro da accettare nella storia, i ragazzi fanno dentro e fuori dal carcere, dove la vita da delinquente subisce solo un’interruzione per poi riprendere immediatamente una volta riguadagnata la libertà.
Il sistema educativo che ci si aspetta da una pena detentiva, è totalmente assente e questa mancanza lascia sbigottiti. Anzi, per rincarare la dose, l’esperienza del carcere serve solo per fare nuove conoscenze e pianificare futuri crimini.
Il senso del riscatto, la voglia di redenzione non è instillata nell’animo di questi ragazzi, non capisco perché. Credo che ogni uomo sia in possesso della coscienza morale, quindi ha la capacità di distinguere il bene e il male, in base a ciò è in grado di giudicarsi.
A cura di Elvio Mac
Giuseppe Fabro
(1949) vive in Piemonte. Da più di trent’anni fa l’educatore professionale. Ha fondato tre comunità terapeutiche per il recupero da tossicodipendenze, alcol e disagio sociale. Il sangue dei padri è il suo primo romanzo.
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