A tu per tu con l’autore
Ciao Alessandro, grazie per aver accettato l’invito della redazione di Thrillernord a parlare del tuo nuovo e bellissimo libro “Nessuno resta solo”, edito da Einaudi.
Uno dei temi di fondo di questo splendido romanzo è senz’altro l’incomunicabilità tra Guido e suo figlio Tonio, nonché il racconto della loro solitudine. Quanto, a tuo giudizio, la vicenda dei due protagonisti descrive il disagio esistenziale attuale di tante persone?
Purtroppo credo che in questa storia si possano riconoscere moltissime persone. I rapporti familiari sono sempre più frammentati e indiretti e soprattutto tra padre e figlio i gesti di affetto e il contatto fisico sono spesso qualcosa di cui si si deve vergognare. Così capita di lasciarsi andare alla deriva un po’ per volta, quasi in modo impercettibile, e di allontanarsi così tanto che alla fine la distanza diventa incolmabile. Ciascuno è così concentrato sul proprio dolore che non vede più quello degli altri, nemmeno quello delle persone che ci dovrebbero stare a cuore più di tutte le altre.
Un altro aspetto che mi ha molto colpito, diffuso tra i capitoli, è il modo con cui tratteggi in alcuni personaggi l’ipocrisia di un certo perbenismo benpensante e un po’ farisaico, sempre pronto a puntare il dito contro qualcuno, ma incapace di fare davvero una reale compagnia all’uomo. Ti ritrovi in questa lettura?
Certamente. Del resto Guido che, in qualche modo, comincia a uscire da quel perbenismo, prova un certo conforto in un’incontinenza verbale crescente, che gli fa dire un po’ tutto quello che gli passa per la testa. Le sue frasi fuori luogo sono magari giustificate dal lutto (che quello stesso perbenismo diffuso accetta come ottima scusa per ridimensionare il peso della verità), ma ciò che accade davvero è che Guido si rende conto poi in fondo di non sapere più chi è: è stato così attento alle distanze, alla decenza borghese da salvaguardare, che ha finito per non essere più padrone di nessuna delle sue scelte. Quando incontra alla stazione di servizio l’amico Obino è come se si guardasse finalmente allo specchio e trovasse insopportabile quel che lui stesso è diventato in tutti quegli anni. Quello stesso perbenismo implica che lui non possa amare un tipo “poco raccomandabile” come suo figlio Tonio. Ma cosa resta di un padre, se non può amare suo figlio?
Nei tuoi romanzi mi è capitato di rintracciare spesso alcuni fili conduttori: penso, ad esempio, al rapporto con la natura, presente anche in Il primo passo nel bosco e ne La mia maledizione. Anche in quest’ultimo tuo lavoro, mi sembra che affiori di nuovo questo importante tema.
Hai senz’altro ragione. È una delle mie ossessioni, sia perché io stesso amo la natura e ho un gran bisogno del contatto con gli alberi, i prati, le spiagge, anche solo per poter scrivere e immaginare le mie storie, sia perché i personaggi dei miei libri spesso sfidano la dimensione umana: si confrontano con il lato più estremo di sé, quel che potrebbero essere e che non sempre (anzi quasi mai) possono permettersi di diventare. Nella natura il viaggio raggiunge orizzonti nuovi, nei quali la società finisce sullo sfondo e i personaggi sono costretti a fare i conti con se stessi.
Giorgio Gaber cantava che l’uomo non è fatto per stare solo: tutto il tuo romanzo è una rigorosa dimostrazione di questo assunto. E pare di cogliere che, fuori da una dimensione di relazione, all’uomo non resti altro che la prospettiva disperata di un lutto perenne da elaborare e di una morte che, prima o poi, arriverà. È così?
Non solo l’uomo non riesce a vivere da solo, ma nemmeno i morti ci lasciano soli quando iniziano il loro viaggio. Anzi, in un certo senso dialoghiamo perfino più intensamente proprio con le persone che ci hanno lasciato. Continuiamo a cercare risposte a domande che non abbiamo mai osato fare ed è impossibile in ogni caso definire se stessi, se non in rapporto alle persone con le quali abbiamo trascorso la nostra esistenza. Nessuno resta solo, e tuttavia nessuno sa davvero come vivere assieme agli altri. Tutta la vita è un gioco di equilibri tra il nascondersi e il mostrarsi. Guido è costretto a rivelarsi in certi momenti di tensione del romanzo, che virano un po’ sul thriller, perché quando si sente che la propria vita (ma in generale le proprie certezze) vacillano, smettiamo di controllare ogni gesto e ogni parola, finiamo per tentare il tutto per tutto per tenere assieme quel che ci resta.
La storia, pur in tutte le sfaccettature del dolore e delle incomprensioni tra padre e figlio che sono narrate con grande maestria, è a mio modo di vedere una storia di speranza. A un certo punto, la capacità dei protagonisti di capirsi e, forse, anche di riconciliarsi e perdonarsi, è ciò che cambia il segno del loro rapporto in meglio. È una chiave di analisi corretta?
Credo di sì. Penso che in questo romanzo ci siano innanzitutto un padre e un figlio che inseguono una luce: si aggrappano a una vitalità di cui non sanno esattamente gestire le implicazioni, però non mollano. Continuano a fare scelte che non risolvono i loro problemi, ma semmai ne creano sempre di nuovi e tuttavia nel frattempo vivono: sono lì e ci restano, scalpitano e sperano: ancora in cerca di un modo per mostrare agli altri (e soprattutto a se stessi) che sono ancora capaci di amare.
Un’ultima domanda, quasi d’obbligo: se ho imparato a conoscerti, hai già un’idea o anche qualcosa di più nel cassetto, per il prossimo tuo libro. Confermi o smentisci?
Ci sono voluti sette anni perché questo libro potesse finalmente arrivare in libreria dopo La mia maledizione, che è stato un libro così particolare e del quale ancora mi parlano molti lettori. Nessuno resta solo ha richiesto un lavoro molto accurato anche per la delicatezza dei rapporti tra i personaggi. Tuttavia in questi anni effettivamente ho scritto altro. Sette anni sono tanti. Ho scritto un romanzo piuttosto lungo e che mi ha trascinato lontanissimo: in giro per il mondo (purtroppo solo con l’immaginazione) in una storia di rinascita. Credo si possa definire un vero e proprio romanzo di avventure esistenziali. Non posso dire molto di più, ma spero uscirà presto. Magari tra un anno o due. E’ lì, pronto, e mi fissa chiedendomi di uscire di casa al più presto.
Alessandro De Roma
A cura di Christian Floris
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