A tu per tu con l’autore
Andrea, sei arrivato al Cinese, passando attraverso il tuo essere poeta, romanziere per ragazzi, scrittore non di genere, autore radiofonico, cinematografico e televisivo, editor e non ultimo libraio. Tantissime e variegate attività con un unico fondamentale punto comune, la parola scritta. Trovo che il Cinese, che si avvia ad essere decisamente un noir fondamentale e imprescindibile nella letteratura di genere, ci sia tutto questo. Ho trovato leggendolo tratti di poesia pura, attenzione ai giovani (mi riferisco ad esempio alla ragazzina cinese che va a parlare con Luca Wu, cercando di essere utile alle indagini), elementi non di genere come i riferimenti alla cultura cinese, alla storia, il tutto tramite una scrittura che è linguaggio comunicativo ed evocativo di immagini allo stato puro. Sei d’accordo?
Si, sono assolutamente d’accordo. Credo di essere arrivato al punto in cui, non in modo programmato, ma perché succede forse anche naturalmente, tutte le varie esperienze fatte nella vita cominciano un po’ a legarsi. E’ vero che si è sempre eterni adolescenti, però a 47 anni si comincia a fare anche un po’ di sintesi e in questo senso nella mia scrittura credo adesso ci sia un po’ la somma delle diecimila cose diverse che ho fatto e che peraltro continuo a fare. Quindi sì, c’è tutto. C’è il fatto che la poesia in ogni caso è quella materiache aiuta, almeno per come l’ho sempre vissuta io, a creare uno strato, un’immagine, una densità, però proprio con parole semplici, non con strani vocaboli astrusi. Essere stato ed essere uno sceneggiatore ti allena all’ economia: in pochissimi tratti devi dare un’identità compiuta, piena e viva ad un personaggio, perché in sceneggiatura è così, le didascalie, che sono le parti descrittive sia dell’azione sia dei personaggi che la compiono, devono essere il più risicate possibili, e in tre minuti si deve riuscire a descrivere ciò che sta accadendo e chi sta agendo quell’azione: chi è? Cosa prova? Ok, devo dare un pugno a uno, ma lo do perché sono arrabbiato? Triste? Perché glielo do? Che cosa sento? In due righe occorre far passare questo, per cui la sceneggiatura in questo senso è uno straordinario esercizio.
L’avere fatto il libraio in realtà ha reso anche me un lettore onnivoro, compulsivo e ossessivo. Sono arrivato in certi periodi a leggere fino a trecento romanzi l’anno e, anche se adesso devo dire che la frequenza e la quantità di libri che leggo un po’ è calata, ho fatto scorta. Anche fare l’editor è un altro ottimo esercizio, perché insegna a lavorare sul testo con un minimo di distacco. Bisogna saper cogliere che cosa nel testo funziona o non funziona e se c’è qualcosa che non funziona, che in qualche modo stride, occorre avere la capacità di discuterlo o con un Autore, o nel caso in cui l’Autore sia tu, con te stesso. Il che non vuol dire che per forza si debba tagliare, però, appunto, il testo va messo in discussione. E questo chiaramente è stato utile quando ho fatto l’editing del romanzo insieme all’editor di Rizzoli, Tommaso De Lorenzis. Abbiamo avuto uno scambio molto consapevole. Tommaso ad un certo punto mi ha mosso l’osservazione che il protagonista spesso “guardava in camera”, cioè diceva delle cose come se le dicesse direttamente al lettore. Tutte quelle parti lì, o quasi tutte, le abbiamo tagliate perchè in effetti erano didascaliche. Ma quando Tommaso mi ha fatto notare questa cosa io prima ho detto no! Poi, riflettendoci, ho capito che aveva ragione. Essere editor ti fa difendere strenuamente quello in cui credi ma essere anche più obiettivo su cose che di fatto a pensarci bene possono essere cambiate. La ragazzina cinese che tu citi, nel gergo della sceneggiatura viene chiamata tinca. La tinca è un personaggio che entra in una storia, ha poche pose e non determina esiti sconvolgenti. Scrivendo il mio romanzo, ho inserito questa ragazzina, consapevole che fosse una tinca, ma io la volevo esattamente lì, volevo che portasse non tanto una svolta nelle indagini, ma il senso di una comunità che lentamente cambia. Poi, chissà. Magari in una prossima avventura di Luca Wu, se di nuovo l’azione tornasse ad essere profondamente centrata a Tor Pignattara, non è detto che la ragazzina non ricompaia per fare qualcosa di più concretamente significativo. Nello scrivere un romanzo si crea un mondo, all’interno del quale non è detto che tutti i personaggi debbano compiere azioni decisive, lo scrittore crea il mondo e i personaggi sono parte di quel mondo, e perciò non è detto che in futuro non rivestiranno un ruolo più determinante.
In realtà in questo caso è più semplice di ciò che sembra. Non so per quale incastro di forze cosmiche, ma in questo romanzo, da un certo punto in poi, tutto ha preso ad andare per il verso giusto. Forse anche perché l’idea di scriverlo è nata dentro di me da esigenze molto basiche. Ho iniziato a scrivere questa storia per motivi semplicissimi. Primo, avevo voglia di tornare alla narrativa, dopo quasi quattordici anni da quando avevo scritto il mio ultimo romanzo e dopo aver scritto praticamente quasi solo per cinema e televisione, volevo tornare a scrivere qualcosa per me. Devo anche dire che Giancarlo De Cataldo e Sandrone Dazieri, che cito nei ringraziamenti, mi avevano caldamente sollecitato a farlo. Quindi, avendo deciso di scrivere qualcosa per me, volevo farlo divertendomi, scrivendo di cose che mi piacciono.
La passione per la Cina risale ai miei anni giovanili, sono andato per la prima volta in Cina a 19 anni, nel 1990, poco dopo i fatti di Piazza Tienanmen. Ci sono tornato lo scorso Novembre, e, per il prossimo romanzo di Luca Wu, al quale sto lavorando, ci tornerò di nuovo appena possibile. La mia passione per la cultura cinese nasce dalla mia passione adolescenziale per le arti marziali. Ecco in sostanza perché quando ho deciso di scrivere un romanzo ho pensato che avrei voluto parlare di cultura cinese e arti marziali. Perché sono argomenti che mi appassionano e mi divertono. Avevo poi desiderio di scrivere di un eroe. Perché da lettore, spettatore e costruttore di storie per il piccolo e grande schermo, da troppo tempo mi trovavo a fruire o scrivere costantemente di anti-eroi. Investigatori tormentati, cupi, un po’ corrotti, tutti sul filo del rasoio. Io invece avevo voglia di scrivere di un personaggio che fosse complesso, moderno, con le sue contraddizioni, debolezze, sfaccettature, ma che fosse sostanzialmente un buono che lotta contro il male. Volevo poi anche che apparisse fisicamente forte, che incutesse un concreto timore ai criminali. Fino ad un certo lo immaginavo italiano, vissuto per anni in Cina, che avesse lì imparato le arti marzialimolto bene, che avesse imparato a parlare cinese, che avesse fatto una full immersion nella cultura cinese. Più o meno pensavo a me stesso. Poi, sempre De Cataldo, mi ha indirizzato da un suo amico, Francesco Sisci, uno dei maggiori sinologi che ci sono in Italia, docente in varie università in Cina, a Pechino e quant’altro.
L’ho incontrato, gli ho raccontato un po’ di quella storia che all’epoca mi si stava gonfiando in testa, e lui mi ha detto una cosa semplice, bello, mi piace, funziona, ma un investigatore italiano che si trovasse ad indagare all’interno della comunità cinese, non scoprirebbe nulla. Nella realtà le cose non stanno esattamente così, ci sono fior fior di rapporti, e io li ho studiati, dei nostri investigatori italiani sulla comunità cinese, sulle mafie cinesi in Italia. Però è vero che un conto è fare delle indagini per carpire certi aspetti criminogeni, e un conto è entrare dentro una mentalità. Sisci mi ha dunque suggerito di pensare ad un protagonista italiano, nato in Italia, cittadino italiano ma di origine cinese. Ci sono, già tra le forze dell’ordine, dei carabinieri italiani di origine cinese, mi disse. E lì io ho sentito fare clic nella testa. L’interruttore si è acceso. Perché a quel punto avevo il mio personaggio, il mio eroe, mezzo italiano, mezzo cinese, spaccato tra due culture, complicato, strutturato e tormentato. Non mi dovevo inventare nulla, già tutta la complessità del personaggio era lì; in più era plausibile che fosse un esperto di arti marziali addirittura allenato in casa, come accade ai bambini cinesi fin dai tre anni. L’altra scelta fondamentale è stata quella di decidere, nonostante l’enorme difficoltà, di scrivere il romanzo in prima persona, e cioè mettermi io nella testa di Wu. Un narratore onnisciente infatti non avrebbe potuto scavare abbastanza a fondo. Era fondamentale che tutta la storia passasse attraverso il suo sguardo. Anche se ogni personaggio ha la propria identità, questa storia esiste solo perché c’è Wu, e quindi io non potevo non raccontarla se non da dentro lui.
Ho messo Luca Wu a vivere precisamente a casa mia, alla Garbatella, dove ho realmente un appartamento, ma il suo lavoro è a Tor Pignattara, che è anche il luogo dove è incentrata l’indagine. La vera differenza tra questi due quartieri, che sono anche relativamente vicini, rispetto alle distanze di Roma, è che la Garbatella non ha una grande penetrazione di stranieri, è un quartiere di romani “storici” e di giovani perché lì vicino c’è la terza Università. Invece Tor Pignattara, come racconto nel romanzo, ha subito un’immigrazione massiccia. Questa è la vera differenza tra i due quartieri: entrambi hanno un nucleo, un substrato popolare resistente e combattente in qualche modo, però la Garbatella rimane un quartiere romano, Tor Pignattara un quartiere totalmente multietnico. Sono stato spesso lì, anche per girare i booktrailers del romanzo, e nei tre minuti durante i quali, l’amico che era con me filmava, ha ripreso persone di almeno una decina di etnie diverse. Sono arrivato a scegliere Tor Pignattara, in maniera, anche in questo caso, molto lineare.
Ho cercato di individuare quali erano a Roma le zone cinesi, escludendo l’Esquilino, che è la Chinatown storica di Roma, perché è già stato straraccontato. Sono andato a parlare con gli operatori del Comune e con i poliziotti di Roma che si occupano prevalentemente della comunità cinese, e loro mi hanno detto che le maggiori comunità a Roma stanno appunto all’Esquilino, a Porta Maggiore, che cito anche nel romanzo, e snella zona tra Tor Pignattara e Centocelle. Io ci sono andato, sono andato in quei posti a farmi dei giri. E quando ho visto il Commissariato di Tor Pignattara, che sembra veramente una piccola palazzina di appartamenti, mi sono convinto che quello era il posto di Wu. Lì ho scoperto poi un mondo nel mondo, mi sono seduto nei bar, ho parlato con i cinesi, con i poliziotti. Volevo capire la natura criminale del quartiere nella realtà e poi parlare con le associazioni che radunano persone di etnie diverse, fanno aggregazione, per farmi raccontare gli altri aspetti. Poi, per scrivere questo romanzo, ho letto una quantità abnorme di libri e documenti.
Mio padre sostiene che, se ai tempi del liceo avessi studiato come ho studiato per scrivere questo romanzo, lui avrebbe ancora i capelli. E ore e ore passate con chi vive sul campo le realtà che io descrivo, persone comuni, a volte personaggi borderline che hanno deciso di condividere con me qualche confidenza, e ancora tantissimi poliziotti. In particolare Marco de Franchi , che è alla Questura di Livorno e che è anche lui scrittore. Ha risposto con pazienza e cura a centinaia di mie mail; gli mandavo i miei quesiti, talvolta così complicati che lui radunava la sua squadra alla Mobile, e poneva la questione come fosse un caso reale. Io poi sono anche andato e rimasto giorni con loro presso la squadra mobile di Livorno, per osservarli in azione. Un Autore scrive di intercettazioni, MA nella realtà cosa succede? Io mi sono messo lì e ho visto il collega di de Franchi seduto davanti allo schermo del computer con le cuffie a normalizzare i vari files che arrivavano, ascoltando e trascrivendo per lunghe ore in saletta ascolto, mentre la gente intorno entrava, usciva. Mi sono anche fatto dare un file di tabulati per capire in pratica come è fatto, perché quello che volevo rendere nelle mie pagine era la più totale veridicità.
E questa è stata un’altra scommessa. Mi sono posto a lungo il dubbio se il lettore si sarebbe stancato a leggere di personaggi che discutono sul passare dal gip, poi dal sost. proc. , poi dal pm… Io però volevo raccontarlo così. Un poliziotto, per andare ad arrestare qualcuno deve avere un decreto di arresto emesso dal pm e a sua volta il pm, se vuole mettere qualcuno in carcere senza che ci sia la necessità dell’urgenza di un decreto di arresto deve chiedere un’ordinanza di custodia cautelare al giudice per le indagini preliminari. Ecco, io so che è cosi e pertanto non riesco a bypassare questo iter e a scrivere una cosa che nella realtà non esiste. Non c’è nel romanzo nemmeno un passaggio che non corrisponda totalmente alla realtà. Ci sono pochissime forzature, nel senso che ci sono solo cinque o sei cose che ho raccontato e che che sono un po’ irrituali. Ad esempio nella realtà in carcere, ad interrogare un imputato, va generalmente solo il pm: nel romanzo in una delle scene c’è una diatriba perché è presente anche Wu. Però il fatto che io specifici che Wu è presente come coadiuvante del pm, ai termini di legge è corretta. Rarissima, ma corretta. In effetti questi aspetti “tecnici”, stanno ottenendo un riscontro positivo, sia tra i lettori che tra le lettrici.
Alla dettagliata precisione che interessa la cultura cinese e le dinamiche investigative pratiche, corrisponde un registro in un certo qual modo differente adottato nella resa e nella descrizione dei personaggi. Ho trovato davvero avvincente ed affascinante il tuo modo di descriverne i moti interiori in maniera molto coincisa, tramite osservazioni, frasi e periodi contenuti e ben delimitati dove vige il motto non una parola di meno non una parola di più, less is more, disseminati fluidamente nel romanzo. Sei riuscito a rendere perfettamente lo spettro delle emozioni e sensazioni e dei tratti caratteriali di ogni personaggio, lasciando allo stesso ampio spazio e curiosità per approfondimenti ulteriori, una sana e grande voglia di saperne di più. Implicitamente ti chiedo se per il Cinese, come i lettori sperano e si aspettano, è avviato un progetto di serialità e, se sei d’accordo con ciò che ho osservato, se è frutto di una scelta stilistica o se sono i personaggi che si sono presentati a te così.
Dunque almeno una seconda storia con Wu ci sarà. In realtà io anche già un’idea per una terza storia, magari un po’ più “contenuta”, perché qui smaschera un serial killer e fa fuori una triade, nel secondo vorrei spingerlo ancora un po’ più in là, nel terzo, ecco, meno perché di più ci sarebbe farlo lottare con gli alieni e direi che non è il caso. Nella terza avventura vorrei riportarlo ad un’indagine che raccontasse qualcosa di un po’ più “piccolo”, non per questo meno importante. Insomma, almeno due o tre storie le ho già in testa e credo che Wu resterà con me per un po’, perché non ho finito con lui, e lui stesso non ha certo finito il suo percorso. In ogni caso mi ci vuole del tempo per scrivere, perché anche se il mio prossimo romanzo non credo sarà di cinquecento cartelle come questo ma un po’ più breve, nel momento in cui si crea un mondo in ogni caso il romanzo diventa corposo. In più mi occorre tempo per studiare.
Qualcuno addirittura mi ha scritto che secondo lui io ho un team che fa le ricerche per me…. magari fosse! Ma il team sono … io! Ho persone che si prestano ad ascoltarmi come de Franchi, Sisci, ma il team sono sempre io. Mi fa poi particolarmente una piacere una cosa che mi ha detto un amico sceneggiatore , che poi è il medico legale del romanzo, Marcello Olivieri, genovese, brontolone. Marcello ecco è senza dubbio uno dei migliori sceneggiatori italiani, ma è anche un formidabile, spietato lettore ed è uno dei primi che ha letto il mio romanzo. Mi ha detto due cose che mi hanno riempito di gioia: la prima che ho scritto un incipit eccezionale, la seconda che, nonostante il romanzo sia scritto in prima persona , tutti i personaggi, pur se descritti in poche righe hanno la loro identità. Questa è una medaglia che mi sono messo al petto, anche perché Marcello è uno che complimenti non ne fa quasi mai.
Ti posso dire che è accaduto che tutte le maggiori società di produzione italiane hanno mostrato un fortissimo interesse ad acquisire i diritti del romanzo per farne una serie tv. Da questo interesse sono già arrivate delle offerte concrete e stiamo trattando con una produzione in particolare. E questa è una grandissima soddisfazione perché non è nemmeno un mese che il libro è fuori.
Adesso leggo meno di prima, come ti dicevo, perché passando ore a scrivere davanti al computer, onestamente alla sera molte volte preferisco guardare una partita di calcio, urlare contro l’arbitro e sfogarmi, che non leggere un libro. Però ovviamente continuo ad essere un lettore forte e onnivoro e leggo anche il thriller nordico. Di questo genere mi piace moltissimo una cosa che credo di aver fatto anche io, cioè riuscire a rendere vicino un mondo lontano. Quando i thiller nordici hanno iniziato ad essere tradotti all’estero avevano la peculiarità di portare il lettore dentro uno spazio fisico ed emotivo lontanissimo dal nostro e questo era incredibilmente affascinante. Mi piace certa malinconia, certe atmosfere, ma mi piace anche come, e penso a Jo Nesbo, gli autori nordici siano riusciti a prendere certi modelli del thriller americano, a cui anche io ho guardato, e ad adattarli alla loro cultura. I romanzi di Nesbo sono incredibilmente local ma allo stesso tempo universali, e anche in quel caso l’eroe è più antieroe del mio ma pur sempre eroe. Harry Hole è uno che spara, che fa a botte, che indaga anche col fisico, col corpo, rimanendo ferito e io questo lo ho amato moltissimo. Apprezzo l‘affermare da una parte ciò da cui si proviene e allo stesso tempo usare modelli narrativi diversi. Secondo me il thriller nordico ha questo enorme merito e per questo mi piace moltissimo. Ti fa entrare dentro un universo lontano. E infine amo la capacità dei nordici di raccontare il loro presente, che è un presente complesso con le avanzate delle destre, l’alcolismo, l’influenza russa molto potente, una storia travagliata insomma, in modo così lucido e diretto, cosa che, secondo me, a noi a volte manca.
Andrea Cotti
Ringrazio davvero moltissimo Andrea Cotti, per il suo spiccato talento e intelligenza, per la grande simpatia e per la disponibilità ad una chiacchierata piena di suggestioni e stimoli
Sabrina De Bastiani
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