A tu per tu con l’autore
Ciao Antonio, ti ringrazio, anche a nome di ThrillerNord, per aver accettato di rispondere a qualche domanda sul tuo nuovo giallo “Assassinio all’isola di San Pietro”.
Grazie Salvatore, grazie a tutta la redazione di ThrillerNord per lo spazio che avete dato al mio romanzo.
Eccoci qui a parlare del tuo terzo giallo ambientato a Carloforte. Rispetto ai tuoi primi libri e in particolare a “Delitto alla baia d’argento” dove mettevi in rilievo tante storture della società sarda, in questo tuo nuovo libro ho notato un interesse particolare all’approfondimento psicologico sia della vittima, l’orologiaio Galileo, sia dell’investigatore Alvise Terranova.
E’ una mia sensazione oppure hai volutamente privilegito l’aspetto psicologico, anche perché il commissario Terranova solo conoscendo “il mistero del cuore umano” della vittima riesce a risolvere il caso?
Sì, è una sensazione giustissima. In questo terzo romanzo ho sentito l’urgenza – e forse anche la libertà – di andare più a fondo nella dimensione psicologica, sia della vittima sia del commissario Alvise Terranova. Quando scrivo, mi interessa molto esplorare la vita della vittima: ricostruirne i legami, i vuoti, i silenzi, come se cercassi di restituirle una voce, una dignità. Mi piace indagare quel punto preciso in cui un piccolo ingranaggio della vita si è inceppato, si è trascurato, e col tempo è diventato un dramma, fino all’omicidio.
Ambientando i miei romanzi in una piccola comunità come quella di Carloforte, voglio anche sottolineare che il male non appartiene solo alle grandi organizzazioni criminali, ma può nascondersi nelle pieghe dell’ordinario, nelle persone comuni, nelle relazioni familiari o nei non detti. La materia umana, con tutte le sue contraddizioni, mi affascina profondamente. Per questo cerco di guardare sempre dentro, in fondo alla vita delle persone. Lo faccio con le vittime, ma anche con il mio investigatore.
Nei primi due romanzi, non avevo ancora in mente un progetto di serialità: erano nati come storie a sé, seppure con lo stesso personaggio. Poi però è stato Alvise (oltre che i lettori), in un certo senso, a chiedermi di continuare. Ha cominciato ad aprirsi, a mostrarsi, e così io ho potuto conoscerlo meglio e restituirne anche il lato più umano, più fragile. E credo che, da qui in avanti, questo sguardo più intimo sarà una delle chiavi del suo agire investigativo.

Uno dei temi caldi di “Assassinio all’isola di San Pietro è quello del ritorno, comune sia all’orologiaio Galileo, la vittima, sia a Terranova. E’ un aspetto che ti coinvolge anche personalmente?
Sì, il tema del ritorno mi coinvolge sul piano personale. Fin dall’inizio, la scelta di un protagonista che torna nella sua isola dopo oltre vent’anni mi è servita come chiave narrativa: attraverso i suoi occhi, volevo raccontare la riscoperta, lo stupore nel rivedere cose note che, forse, quando ci erano quotidianamente davanti, non sapevamo più riconoscerne la bellezza. Il ritorno, quindi, come riappropriazione di qualcosa che avevamo dentro e che il tempo aveva soltanto momentaneamente offuscato.
In “Assassinio all’isola di San Pietro”, anche Galileo torna sull’isola portando con sé ciò che il tempo non è riuscito a cancellare: ferite, rimpianti, promesse, domande rimaste in sospeso. Il ritorno non è mai solo un movimento nello spazio, ma un gesto intriso di memoria, un confronto con ciò che si è stati e con ciò che si è diventati. Ogni ritorno, in fondo, è anche una resa dei conti.
Il fatto che la vittima sia un orologiaio non è casuale: il tempo è un elemento centrale in questa storia. L’orologiaio tenta ostinatamente di riparare un orologio come se, in realtà, cercasse di rimettere a posto qualcosa nel passato. Come se volesse aggiustare il tempo stesso.
Questo gesto mi è familiare: lo riconoscevo in mio nonno, orologiaio a Carloforte. Anche da pensionato, si metteva il monocolo, prendeva i suoi attrezzi – ingranaggi, ruote dentate, vitine – e si immergeva in quel lavoro minuzioso, quasi a voler riparare, attraverso quegli orologi, un pezzo della sua vita trascorsa in Svizzera, dove aveva imparato l’arte.
Alvise Terranova attraversa una fase cruciale della sua vita, ma era tutto programmato all’inizio della stesura oppure tutto si è delineato strada facendo?
Qual è il tuo metodo di scrittura, organizzi il plot in modo schematico o ti lasci guidare dall’ispirazione?
In realtà, quando inizio a scrivere un romanzo ho già le idee piuttosto chiare. Parto da una scaletta ben definita, che delinea sia la struttura narrativa del giallo (gli ingranaggi) sia le suggestioni legate alle vite dei personaggi (il lato più umanistico). Naturalmente, nulla è scritto sulla pietra: durante il processo di scrittura capita spesso che la storia prenda direzioni inaspettate e mi costringa a rivedere il percorso iniziale.
Pian piano il personaggio dell’ispettore Rivano sta acquistando consistenza, credi che possa avere un ruolo più autonomo e determinante?
Questo giovane, ingenuo e genuino, era nato inizialmente come spalla di Alvise Terranova, utile a mettere in risalto – talvolta per contrasto – la sua disillusione. Con il tempo, però, si è rivelato un ottimo collaboratore: affidabile, gentile, sorprendentemente solido. Mi ha colpito scoprire che alcuni lettori lo hanno indicato come il loro personaggio preferito. Anche Alvise ha riconosciuto la sua autenticità, e sta iniziando a concedergli sempre più fiducia. Credo che in futuro il buon Rivano saprà riservarci delle belle sorprese.
Nella prefazione a “Solea”, Jean-Claude Izzo scrive “La mia storia prende spunto dalla realtà. Perché è proprio lì che si gioca tutto, nella realtà. E l’orrore, nella realtà, supera di gran lungo la fantasia.”
Pensi che la funzione del noir sia quella di non far dimenticare l’orrore che regna?
Credo che il noir – o il giallo, più in generale – possegga una forza particolare: quella di ricordarci che la realtà, per quanto spesso ignorata o addolcita, resta il vero campo di battaglia del conflitto umano. Come scrive Izzo, “è proprio lì che si gioca tutto”. La letteratura, che si esprima attraverso il noir o altre forme narrative, ha il compito di fare luce: di portare alla superficie le crepe, le contraddizioni che troppo spesso preferiamo non vedere. In questo senso, per me, il noir è il genere della memoria. Impedisce che certe verità vengano sepolte o dimenticate, costringendoci a guardare in faccia ciò che c’è di più scomodo – non solo nella società, ma anche dentro di noi. E lo fa attraverso le storie, i personaggi, le sfumature morali e la complessità umana.
Hai mai pensato di far interagire Alvise Terranova con qualche altro investigatore letterario o di farlo indagare fuori dalla sua comfort zone di Carloforte?
Sì, ci ho pensato molte volte. Alcuni lettori mi hanno persino suggerito di far collaborare Alvise con altri investigatori contemporanei ben noti, e devo dire che l’idea mi diverte molto. A volte mi sorprendo a immaginare scene tra lui e altri personaggi: dialoghi, battute, magari persino serate goliardiche. Chissà…
Anche in questo caso, sarà il tempo a decidere le sorti della mia scrittura. Di una cosa però sono certo: arriverà un momento in cui Alvise dovrà uscire dalla sua comfort zone, abbandonare – almeno temporaneamente –Carloforte e confrontarsi con realtà diverse. In fondo, ogni ritorno presuppone una partenza. E senza partenze, i ritorni non avrebbero senso.
Chi vedresti bene come interprete del commissario Terranova in un’ipotetica serie televisiva basata sui tuoi gialli?
Quando ho immaginato per la prima volta Alvise Terranova, avevo in mente il volto di un giovane Benicio del Toro, in particolare quello intenso e sfuggente che aveva in Traffic. Naturalmente, oggi sarebbe impensabile vederlo interpretare una serie tratta dai miei romanzi – non solo per questioni anagrafiche.
Quanto agli attori italiani, ce ne sono molti di grande talento. Ma se dovessi indicare chi, almeno dal punto di vista estetico, si avvicina di più all’Alvise che ho in mente mentre scrivo – con quell’aria leggermente tormentata che ben si presta a un personaggio sfaccettato come lui – penserei a Marco Bocci, Giuseppe Zeno o Edoardo Leo.
C’è qualcosa di te nella personalità di Alvise Terranova, oppure è un soggetto di totale fantasia?
Sì, in Alvise c’è sicuramente qualcosa di me: c’è il filtro con cui guardo il mondo, il mio gusto per certi silenzi, per certe domande, per certe inquietudini. Ma non è solo questo, altrimenti sarebbe un personaggio limitato, quasi autoreferenziale. Cerco sempre di andare oltre, di cercare altrove – nelle storie degli altri, negli incontri, nella vita quotidiana – perché lì c’è una ricchezza infinita.
Alvise, in fondo, è un collage: prende forma da frammenti che mi colpiscono nelle persone, da gesti, frasi, sguardi che lasciano il segno. Un personaggio si nutre anche di ciò che è distante da noi, e proprio in questo intreccio tra il familiare e l’estraneo, tra l’io e l’altro, nasce qualcosa di autentico.
Con il successo dei tuoi gialli Carloforte godrà anche del traino letterario ma quali sono i punti forti che consigli a chi volesse visitare questo splendido gioiello?
Carloforte è un angolo di mondo da scoprire con calma, non da consumare in fretta. Il mio consiglio a chi vuole visitarlo è di lasciarsi guidare dall’intuizione, più che da una mappa. A volte, senza una guida precisa, si rischia di perdersi… ma è proprio così che si trovano le cose più autentiche, quelle che non compaiono nei depliant e nelle guide turistiche.
Certo, ci sono i luoghi simbolo, quelli segnalati ovunque – e sono meravigliosi. Ma Carloforte si scopre davvero solo quando ci si lascia cullare dal momento, dall’improvvisazione. Nei miei romanzi cerco di restituire anche questa dimensione emotiva dell’isola: una serata all’Oblò, una passeggiata per i caruggi, oppure il semplice gesto di salire su una barca e partire, senza una meta, solo per il piacere di lasciarsi portare.
Alla fine, Carloforte è anche questo: uno spazio dove rallentare, ascoltare, sentire. E ognuno, se sa guardare, può trovare la sua piccola meraviglia.
A cura di Salvatore Argiolas
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