A tu per tu con l’autore
Ciao Damiano, innanzitutto grazie per la disponibilità all’intervista a nome della famiglia ThrillerNord.
Posso chiederti da dove nasce l’idea del romanzo?
Grazie a voi per l’ospitalità e l’accoglienza nella vostra famiglia!
L’idea del romanzo è nata circa cinque anni fa, una notte d’estate proprio nella villa che ha ispirato i luoghi di Come in cielo. È una grande struttura, un po’ kitsch (stile Il Boss delle cerimonie, programma televisivo molto seguito), con un enorme giardino e una piscina. Ogni notte, durante la mia permanenza, transitavano lì persone di ogni tipo: neomelodici, adolescenti in preda ai furori, personaggi da film felliniano o perfetti per una pellicola di Matteo Garrone. Ognuno di loro portava con sé un mondo storto ma luminoso fatto di storie, silenzi malavitosi, esuberanze esistenziali. E nel giardino della Villa si realizzavano (ballando, gridando, venendo alle mani) molti temi contemporanei a me cari: la percezione del corpo, la salute mentale, l’amore, la violenza… Ho pensato fosse un posto perfetto per costruire una storia “crime” che mettesse in scena tutte queste sfumature umane.
Ho apprezzato l’uso del dialetto. Posso chiederti se c’è stato un ragionamento con l’editor o se è stata una scelta tua a monte?
Inizialmente il dialetto era molto più presente nel romanzo, compariva spesso (soprattutto nei dialoghi). Dunque un ragionamento con le editor c’è stato, sì, ma nell’ottica della sottrazione. Ci siamo risolti a pensare che una presenza troppo massiccia del dialetto potesse allontanare il lettore dalla vera chiave di lettura della storia: una storia universale, collettiva, umana che – anche se ambientata in uno specifico paesino siciliano – doveva farsi carico di un sentimento comune a tutti. Ho aderito con totale fiducia a questo suggerimento, e proprio da quel momento si sono sciolti molti altri piccoli nodi verso questa prospettiva corale della storia che racconto.
Qual è stato il passaggio più impegnativo nello sviluppo del romanzo?
Quasi paradossalmente, il passaggio più impegnativo non è stato nella scrittura, ma tutt’intorno. Non sono siciliano, anche se i luoghi che racconto in Come in cielo sono ormai un po’ la mia seconda casa; e questo fatto (scrivere una storia ambientata in una geografia dove non ero né nato né cresciuto) mi dava spesso la percezione di essere fuori luogo (letteralmente), un viandante che ha perso la strada, peggio: un impostore. In realtà, strada facendo (più precisamente verso la fine), mi sono reso conto che quel fatto (l’essere un estraneo) era il vero punto di forza: mi permetteva di uscire dalla trappola dell’io, dell’aneddoto personale, del ricordo forzato, e di dedicarmi totalmente all’unica vera geografia possibile in letteratura: l’immaginazione. (Oltre a passare molte notti nei luoghi del romanzo, a parlare ore e ore con tutte le persone che hanno ispirato i personaggi e a provare a vivere, goffamente, spregiudicatamente, come loro…)
E dei personaggi, invece?
Salvatore è stato un personaggio molto complesso da costruire. Solitario, taciturno, ombroso ma pieno di luce, di sorrisi, di risate. Non è stato facile trovare il giusto equilibrio nelle sue apparizioni e sparizioni all’interno del romanzo. Doveva essere protagonista senza però parlare mai; doveva essere sempre in scena anche senza esserci; doveva provocare repulsione, a volte, ma anche empatia. Volevo che il lettore si riconoscesse in lui, togliendogli però la possibilità di immedesimarsi del tutto. Un Ufo terrestre, un angelo caduto, un difficile rompicapo di madre natura.
Un’ultima domanda: stai lavorando a qualche altro progetto?
Sto lavorando al secondo romanzo, che è ambientato nel Lazio, nella sterminata provincia romana, ed ha per protagonisti cinque ragazzi (accesi e insieme sbiaditi dal catechismo cattolico) che si mettono in cerca della loro verità: cioè, del perché del loro stare al mondo (mentre fuori tutto cade a pezzi).
Grazie e alla prossima!
Grazie a voi, a presto!
Laura Bambini
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