A tu per tu con l’autore
A beneficio di chi ancora non li conosce, ma anche per chi li conosce ed è comunque mortalmente curioso (io in primis!), partendo da principio, puoi raccontarci com’è avvenuto il primo incontro con i tuoi personaggi principali, Sauer e Mutti? Puoi descriverceli un pochino? E ancora ti chiedo: sono stati loro a suggerirti l’idea di dar vita a questa serie o, sei stato tu a chiedere loro un’idea e una collaborazione?
I commissari Sauer e Mutti si conoscono dalla metà degli anni Venti, quando per strade diverse (molto diverse) sono approdati alla polizia di Monaco. Una serie di indagini separate, poi si sono scoperti complementari e il direttore Tenner li ha appaiati. Da lì una carriera di successi, che sto raccontando pian piano in una serie di racconti, fino alla vicenda che ha segnato indelebilmente le loro carriera e soprattutto la loro amicizia: la morte misteriosa di Geli Raubal, nipote di Hitler, nel settembre 1931. Io li ho conosciuti lì, nel mattino che apre il romanzo, Sauer seduto a un tavolino del Viktualienmarkt con il suo brezel imburrato e un boccale di tè (essendo l’unico tedesco astemio in circolazione), Mutti in arrivo da casa, dove ha lasciato la moglie e i tre figlioletti. Ricordo ancora la prima volta che li ho visti: tenevo le dita su questa stessa tastiera da cui rispondo alle domande di Thrillernord, nell’ottobre del 2018. Sei anni fa. Sauer si guardava intorno, ascoltando le chiacchiere dei vicini di tavolo e ripensando ai suoi mille dolori, e Mutti si è materializzato a sorpresa (anche per me, soprattutto per me) con una delle sue battute sornione. D’un tratto la luce è cambiata. Ho sentito le loro voci, e ho capito che sarebbero stati perfetti per l’indagine in arrivo. Perché di Geli sapevo già tutto, e sapevo che nell’archivio centrale di polizia a Monaco si trovava un verbale dell’interrogatorio tra Hitler e un KriminalKommissar, il cui nome era appunto Sauer, ma nient’altro: i dettagli erano tutti da immaginare. Pensavo sarebbe stato uno sforzo enorme, ma la verità è che come Sauer e Mutti si sono incontrati sulla pagina, il libro ha iniziato a scriversi da sé.
Questo nuovo romanzo, come racconti nei ringraziamenti finali, tocca una parte reale della nostra Storia. Senza andare troppo a fondo nel tema per non rovinare la lettura a chi ancora ha il tuo romanzo in attesa, puoi raccontarci come ti sei imbattuto in questo fatto in particolare e quando, hai deciso di renderlo il cuore di questa storia?
Ci sono tanti segreti, tanti misteri, tanti enigmi nella nostra Storia recente, e ogni volta che ne scopro uno rimango sconvolto e affascinato dalla mia ignoranza, che poi spesso scopro essere condivisa. Non so se questo mi rincuori o mi spaventi di più, ma l’istinto è immediato: studiare, raccontare, riportare alla luce quanto più possibile ognuna di quelle vicende. A volte si tratta di un delitto (la morte di Geli nell’Angelo di Monaco), a volte di un evento che ha cambiato il mondo (l’incendio del Reichstag nei Demoni di Berlino), altre ancora un grande gesto di generosità passato nel dimenticatoio (il salvataggio di 669 bambini praghesi nel 1939 ad opera di tre inglesi oggi misconosciuti). Con Le furie di Venezia, però, mi sono ritrovato in un territorio nuovo: una storia italiana, anzi due, e terribili, molto più di qualsiasi altra avessi raccontato fin qui. Chi se l’immaginava che Mussolini, tra le tante nefandezze di cui si è macchiato, avesse addirittura segregato e poi soppresso una donna che aveva amato al punto da… Ma sì, diciamolo. Tanto il romanzo è in tutte le librerie, se ne è parlato più di quanto pensassi: il Duce aveva avuto una moglie, prima di donna Rachele, una cittadina austriaca che rispondeva al nome di Ida Dalser e che gli avrebbe persino dato un erede, Benito Albino Dalser Mussolini. La loro esistenza, però, era un pericolo incalcolabile per il Regime: pensate se si fosse saputo che a Palazzo Venezia sedeva un bigamo, e che il suo figlio maschio primogenito non era quello ufficiale, Vittorio, ma un ragazzino che somigliava al padre come una goccia d’acqua e aveva nelle vene sangue straniero… Perché il segreto rimanesse tale, Mussolini non esitò a far rinchiudere in manicomio la moglie e perseguitare per tutta la vita il figlio – una storia pazzesca di cui non sa nulla quasi nessuno. Com’è possibile? Non ne ho idea. So solo che quando mi imbatto in simili ingiustizie, subito Sauer e Mutti mi si affacciano alla mente con una proposta: rimediamo noi? Scrivere come forma di giustizia narrativa.
“Da sempre ci raccontiamo storie per dire: “Anche questo è accaduto.”. Da sempre ci raccontiamo storie per dire: “Non lasciamo che accada mai più.”. Così si chiude il tuo romanzo, con questa riflessione che racchiude un mondo al suo interno. Puoi dirci semplicemente, perché?
Disse Churchill che chi non conosce la Storia è condannata a ripeterla. Noi la Storia non la conosciamo – inutile chiedere di chi o di cosa sia la colpa – anche se ne abbiamo una gran fame, come testimonia il fenomeno Barbero. Così finiamo per assistere ancora e ancora agli stessi soprusi, alle stesse barbarie, commettendo errori che non sappiamo essere stati già commessi identici dai nostri nonni, dai nostri avi. Viene da chiedersi se più che Churchill non avesse ragione Montale quando in una sua poesia dichiarava che “la Storia non è magistra di niente che ci riguardi”… Io non so. Mi pare che gli statisti lo studino eccome, il passato, e trovo che alla radice di qualsiasi narrazione, gossip compreso, ci sia sempre un ammonimento. Si racconta per avvertire. Per cercare e poi diffondere indicazioni su come vivere meglio, o almeno non peggio. E forse la Storia non arriveremo tanto presto a conoscerla bene, ma una storia che colpisca al cuore o allo stomaco, che non ci informi soltanto ma ci emozioni (ci diverta) anche, riuscirà ad aprirci gli occhi su eventi attuali, ricordandoci che non c’è mai nulla di nuovo sotto il Sole, certo, ma che forse una volta tanto possiamo affrontarlo in modo nuovo…
Uno dei tuoi personaggi, e non è nemmeno molto difficile capire a chi mi stia riferendo se lo si conosce, si esprime così: “E’ sempre il momento per una risata. Specie quando non lo è.”. Anche Fabiano Massimi trova lo spazio per una risata ogni tanto?
Fabiano Massimi, se avesse potuto scegliere, sarebbe stato uno stand-up comedian o quantomeno un nuovo P. G. Wodehouse. Il suo (il mio) eroe è Woody Allen, che ha preso Bergman (il grandissimo, intensissimo, dolorosissimo Bergman) e lo ha restituito a un pubblico più vasto attraverso l’umorismo. Oltre alla serie storica in corso ho scritto anche alcuni gialli leggeri (Il club Montecristo e Vivi nascosto), dove la risata è fondamentale, è un modo (forse l’unico) per riscattarsi da un passato per nulla allegro (gli Ammutinati sono ex carcerati). Nei romanzi di Sauer non potevo virare troppo in commedia, né l’epoca né gli argomenti lo consentivano, così è nato Mutti, il personaggio che citi. A lui è delegato il compito di ricordarci che la vita in fin dei conti non è una cosa seria: nessuno ne è mai uscito vivo.
Alla luce dei tuoi lavori, puoi dirci qual è il tuo rapporto con le storie e, soprattutto con la Storia, quella con la S maiuscola?
Ti rispondo con un’altra parola che inizia per S, e la metto anche maiuscola: Soggezione. Cui segue Desiderio. Non conosco la Storia bene quanto vorrei, e perciò sono sempre lì a studiare, a creare occasioni per ripassarla, a inventare modi di utilizzarla nel mio lavoro quotidiano, che è scrivere ma anche insegnare scrittura. Alla Scuola Holden quest’anno terrò un corso annuale per 90 studenti con i quali comporremo una sorta di atlante storico narrativo. Perché la Storia è il più grande repertorio di storie che esista, e contiene non solo il nostro passato e il nostro presente, ma anche il futuro di tutti.
Dato che ormai, dopo “L’angelo di Monaco” e “I demoni di Berlino”, con “Le furie di Venezia siamo giunti al terzo capitolo della fortunata serie che vede protagonisti Sauer e Mutti, hai già idea di un’evoluzione possibile per i tuoi personaggi, anche tenendo conto del periodo in cui si conclude questo nuovo romanzo?
Sì, certo. I romanzi della Sauer Series saranno sette, e so bene dove ci porteranno i prossimi quattro. Anche perché le Furie, in un certo senso, è l’ultimo. Ma solo in un certo senso.
Oltre a Sauer e Mutti, c’è altro che bolle in pentola?
Al momento sto scrivendo un racconto su un celeberrimo manoscritto indecifrato, poi finirò un giallo storico per ragazzi cui tengo molto. E a novembre sarà già l’ora di iniziare il romanzo “adulto” previsto per il 2025. Ovviamente, un thriller storico.
Quando non scrive e non è impegnato in tutte le sue molteplici attività, Fabiano Massimi è anche un lettore vorace? Quali sono i tuoi autori di riferimento? C’è uno spazietto anche per i nordici?
Non si può scrivere seriamente senza leggere seriamente, e il piacere primigenio è sempre quello di scoprire nuove storie, nuovi autori, per cui sì, continuo a leggere tanto anche per diletto. Al momento sto completando l’opera di Elizabeth Strout, ho un paio di vecchi Connelly da recuperare prima dell’uscita del nuovo e mi sono rimesso su Kent Haruf, che trovo tanto autunnale e mi fa bene al cuore. I nordici temo di averli letti quasi tutti, ormai. Larsson, Mankell, Nesser, Indridason… Mi tengo qualcosa da parte per i tempi di magra. Per fortuna, come diceva Troisi, loro sono tanti e io uno solo.
A nome mio e di tutta la redazione di Thrillernord, ti ringrazio per la tua disponibilità!
Grazie a voi, e perdonate i tempi lunghi! Il successo delle Furie mi ha un po’ travolto…
A cura di Loredana Cescutti
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