A tu per tu con il traduttore
A cura di Patrizia Argenziano
La prima domanda nasce spontanea. Nel suo curriculum oltre alla laurea in lingue e letterature straniere ce n’è anche una in filosofia, qual è stato il suo percorso lavorativo?
Dopo il liceo ho subito sentito di dover studiare lingue, un percorso che mi potesse portare a sfruttare appieno quelle che sentivo fossero le mie qualità e i miei desideri. All’inizio non avevo un’idea precisa di quale sarebbe stato il mio percorso lavorativo, anche se l’idea della traduzione si faceva sempre più largo nel mio panorama mentale. La seconda laurea ho deciso di conseguirla per il semplice amore per lo studio e la conoscenza, nonostante traducessi già. Non ne escludo una terza, perché l’arricchimento culturale, oltre che umano dato dalla vita quotidiana, credo sia alla base di una buona traduzione.
La traduzione di un libro, mi corregga se sbaglio, non è un’azione puramente meccanica di trasformare le parole da una lingua all’altra, qual è il primo passo da compiere di fronte a un nuovo testo da tradurre?
Credo che il primo passo sia quello di sentirsi puramente traduttori, di non “strappare” in qualche modo le parole all’autore e farle proprie, bensì di scegliere un approccio quasi straniante. Si è dentro al testo, soprattutto dopo la seconda stesura e infine la rilettura, ma l’autore è colui o colei che ha dato voce ai propri pensieri, che vanno rispettati il più fedelmente possibile, rendendo comunque il tutto fruibile a un pubblico di lettori italiani.
Quanto è difficile, se lo è, escludere la componente emotiva durante il lavoro? Io avrei paura di essere assorbita dalla storia, positivamente e negativamente, e di renderla troppo “mia”. Per intenderci, quanto è sottile la linea di confine tra autore e traduttore?
Come dicevo prima la linea di confine è molto sottile e a volte, soprattutto quando si traduce un libro che ci piace, è difficile non farsi trasportare alla deriva, di odiare o amare un personaggio per come viene descritto o semplicemente per via del nostro background. Ma il ruolo del traduttore deve rimanere tale, quasi una sorta di traghettatore da una lingua all’altra, da una cultura all’altra, senza stravolgere il testo di base.
Durante la traduzione si instaura un rapporto con l’autore? Chiedo perché non credo sia semplice tradurre certe emozioni, certe sensazioni che si vogliono trasmettere. Penso a “L’ultima cosa che mi ha detto” di Laura Dave, al rapporto che si è creato tra una moglie e una figlia, alle loro reazioni, al loro sconforto.
Nel mio caso non ho mai avuto contatti diretti con un autore, se avevo dei dubbi mi confrontavo con l’editor e si cercava la soluzione migliore per rendere al meglio certe sfumature. Avrei di sicuro voluto chiedere a Laura Dave cosa l’ha portata a descrivere fin nel profondo certe dinamiche e non è escluso che possa magari contattarla un giorno per discuterne. “L’ultima cosa che mi ha detto” è un libro intenso per i rapporti umani che si vengono a creare e per la doppia visione matrigna-figliastra adolescente: due mondi apparentemente così agli antipodi eppure così intrinsecamente legati da un filo sottile che le porterà a sciogliere diversi nodi nelle loro vite.
Ha tradotto diversi generi di romanzi, ne ha uno preferito o che le fa semplicemente piacere leggere?
Sono sempre stata una lettrice onnivora, fin da bambina. Leggevo e scrivevo correntemente a cinque anni. Non mi rassegnavo al fatto che quelle parole stampate non potessero avere un significato, per me. Ho iniziato a tradurre dalla gavetta più pura, con gli Harmony, poi pian piano sono riuscita a costruire un percorso sempre più appagante. Mi sono stati affidati molti romanzi rosa, ma quelli che ho preferito di più sono i thriller o i romanzi che trattano dinamiche familiari, come appunto “L’ultima cosa che mi ha detto”.
Le piacerebbe tradurre un autore in particolare o un libro che, in realtà, è già stato tradotto?
Sì, tra i libri già tradotti avrei voluto tradurre Le Correzioni di Franzen. Ma adoro anche le raccolte di racconti; mi ero appassionata ad esempio a Joyce Carol Oates, a Dan Chaon, Alice Munro (autori contemporanei) o a Lucia Berlin. Mi piace l’idea della trasposizione di una storia che si auto conclude in poche pagine ma che apre un mondo di possibilità.
Questo è il suo lavoro dei sogni o ci sono altri progetti in cantiere?
È sicuramente il lavoro dei miei sogni e che non ho ancora realizzato appieno: vorrei infatti arrivare a tradurre letteratura americana contemporanea, chissà…
Giada Fattoretto