Intervista a Marco Della Croce




A tu per tu con l’autore


Il personaggio di Dario De Santis mi è piaciuto da subito. Ho avvertito sin dalle prime pagine una profondità e una caratterizzazione tale da rendermelo amico, è stata subito sintonia. Hai voglia di raccontarci del vostro primo incontro e, in cosa vi assomigliate?

Il nostro primo incontro, come sempre accade con i miei personaggi, è stato casuale. Nel senso che giro l’angolo e me lo ritrovo lì, davanti a me, pronto a fare amicizia. Lui esiste già, come esistono le storie di cui è protagonista. Così, come nella vita reale, la sua conoscenza, i suoi pregi e i suoi difetti si intensificano giorno dopo giorno. La cosa interessante è che anche lui si trova nella stessa situazione. È lui, infatti, che, frequentandomi, tira fuori parti di me che io, di solito, nascondo – per pudore o vigliaccheria –, come tutti, sotto una maschera. È lui che mi costringe, mentre lo descrivo, a confrontarmi e a domandarmi chi sono io veramente. Alla fine più o meno ci piacciamo, con i nostri pochi pregi e i nostri molti difetti. In cosa mi assomiglia? In tutto e in niente, direi. Diffido da quei colleghi che rifiutano di ammettere che il loro protagonista sia una persona diversa da loro. Nei nostri personaggi noi ci specchiamo, ma anche proiettiamo in essi ciò che vorremmo essere. L’onestà dello scrittore sta nel riconoscere questa operazione e costruire una sintesi di realtà e desiderata sincera e spietata. Del resto è inevitabile: quando raccontiamo storie noi – volenti o nolenti – riversiamo in esse tutto il nostro retroterra culturale, le nostre aspirazioni, le nostre paure, i nostri ricordi, le nostre esperienze. Dario De Santis è la summa definitiva (ma sempre in evoluzione) di tutto questo.

Anche nei fedelissimi del commissario, si riscontra una cura maniacale nella loro costruzione. Da subito risultano spontanei e assolutamente credibili, ognuno diverso, ognuno con le sue specifiche peculiarità per provenienza, carattere, convinzioni. Vuoi farci una breve panoramica a beneficio dei nostri lettori?

Non riesco a concepire – e su questo cerco di farlo capire sempre ai miei corsisti – personaggi a due dimensioni. È chiaro che il lavoro di maggiore caratterizzazione lo scrittore lo deve riservare al protagonista o, al limite, all’antagonista. Ma il romanzo, come la vita, è popolato di personaggi di contorno che, sebbene non incidano in maniera determinante nello sviluppo della trama, sono comunque vivi, con le loro aspirazioni, la loro cultura, le loro abitudini e i loro punti di vista. Quanta gente, nella vita reale, attraversa la nostra strada, viene a contatto con noi, influenza – magari nelle piccole cose – la nostra quotidianità? Perché, allora, limitarsi a tratteggiare questi personaggi con cui, nel bene e nel male, abbiamo a che fare tutti i giorni? Descriverli in maniera sincera e profonda è un obbligo (almeno per me) in tutta la loro complessità caratteriale, senza sconti, ma nemmeno senza strizzate d’occhio. Non sono mai stato affascinato dalle classiche dicotomie Male / Bene, Giusto / Sbagliato, Simpatico / Antipatico… Quelle vanno bene per i meravigliosi supereroi della Marvel e della DC dell’età classica: nessuno di noi, infatti, è un supereroe senza macchia né paura, così come nessuno di noi è il Joker. Siamo tutti esseri imperfetti, dunque li sono anche i miei personaggi.

Ambientare il tuo romanzo in uno specifico periodo storico, cioè il 1938, immagino non sia stato casuale. Vuoi spiegarci come e quando è nata l’idea di collocare la tua storia proprio in questo contesto storico specifico? 

Ovviamente no, non è stato casuale. Sono autore di un’altra serie di romanzi, quelli che hanno come protagonista il commissario Simone Sbrana, che si dipana tra il 1969 fino agli anni Ottanta. Fino ad adesso ne ho scritti tre (Nera di malasorte,, Venus e Black Magic Woman, riediti in seconda edizione da Il Filo d’Arianna Editore), con un quarto in uscita a breve (Angie), in cui descrivo la realtà di quel periodo così straordinariamente complesso. Anni profondi, pericolosi, esaltanti, anni in cui gli opposti estremismi hanno perseguito, con un altissimo tributo di sangue, utopie contrapposte. Anni difficili che, come le mine sotterrate sul terreno, vedono esplodere, a distanza di un quarto di secolo dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, tutti i nodi irrisolti del periodo bellico. Mine che, dopo il 1945, nessuno ha voluto togliere o disinnescare, rendendole, così, ancora micidiali e distruttive dopo tanto tempo. La serie di De Angelis, invece, parte dal 1938 e vuole esplorare il periodo in cui quelle mine sono state concepite, sotterrate e innescate. Trait-d ’union, tra le due serie, è il personaggio di Eugenio Russo, detto Gegè, giovane guardia al suo primo incarico nel ’38 e maturo vicebrigadiere negli anni Settanta, forse il vero protagonista di entrambe le serie.

I libri Frilli sono strettamente connessi ai luoghi di cui raccontano, per cui, dopo averci appena parlato del contesto storico, puoi spiegarci perché proprio La Spezia?

Potrei cavarmela sostenendo il principio, proprio della scrittura creativa, che lo scrittore dovrebbe scrivere ciò che conosce. E, infatti Spezia (il “La”, tra gli spezzini, è un odioso orpello imposto dal Regime negli anni Venti che non trova alcun apprezzamento da parte dei nativi) è la città in cui vivo, anche se, nel ’38, non ero ovviamente ancora nato. In quegli anni, però, Spezia è stata una città di primissima importanza, dal momento che all’interno del suo golfo, molto simile a un fiordo nordico, esisteva la più importante base navale della Regia Marina, primo baluardo contro un’eventuale attacco navale da parte dei cugini d’Oltralpe. Per questo il Regime dedicò grandi attenzioni a questa città, rendendola provincia, abbellendola con edifici eleganti, ma anche illudendola di essere una piazzaforte inattaccabile. Bastarono due bombardamenti, nell’aprile del ’43, a raderla in gran parte al suolo. Dunque, scrivo di Spezia perché Spezia la conosco. Ciò di cui non conosco (fatti, personaggi, vie non più esistenti, fatti di cronaca) lo studio con un’accurata ricerca preventiva che occupa moltissimo tempo.

“Nessuno, tra tutta quella bella gente, avrebbe mai dedicato un pensiero anche superficiale alla realtà che li circondava. Per cosa, poi? Per intristirsi? …” . Su questo, ad un certo punto il tuo commissario De Santis inizia a riflettere. Secondo te, nel 2023 siamo diventati un po’ più consapevoli o continuiamo a girarci dall’altra parte per disinteresse, paura di sapere, comodità?

La verità? No, non credo proprio che siamo diventati consapevoli. Al contrario, come in tanti vissuti durante il nefasto Ventennio, ancora oggi la gente fa finta di non vedere, volutamente distratta da orpelli, sovrastrutture e bisogni creati dal nulla, cullandosi nel proprio tran-tran. Una realtà da cui si sveglia – ma nemmeno troppo – solo quando qualcosa li disturba e minaccia la loro finta serenità, spesso sorretta da psicofarmaci e smartphone all’ultimo grido. La maggior parte di noi non vuole rendersi conto, oggi come allora, che, alla fine, siamo noi il Regime, con la nostra passività, la nostra indifferenza, la nostra ricerca del quieto vivere, il nostro chinare la testa, la nostra ipocrisia. 

Quali sono secondo te, al giorno d’oggi, le conseguenze più gravi causate da “… le macerie quotidiane prodotte da un popolo che si ostinava a non studiare la Storia”? In cosa continuiamo a sbagliare?

Sono d’accordo con Alessandro Barbero quando sostiene che la Storia non è mai stata maestra di vita. Studiarla, però, è un dovere, così come è un dovere modificare le proprie prospettive di vita, abbandonando il ciarpame che ci viene venduto come bisogno vitale e recuperando valori, principi e moti d’animo che rendono l’essere umano degno di questo nome. 

Hai progetti nascosti nel cassetto o/e, lo spero veramente, anche una nuova storia con De Santis che sta prendendo vita?

Progetti? È tutta la vita che ne ho e so che continuerò ad averne anche in futuro. In campo letterario vorrei proseguire in parallelo le mie due serie noir (un genere che adoro, perché a differenza del giallo classico, mi consente di esplorare contesti, personaggi e luoghi in cui affondano le radici delle vicende criminose che descrivo), vedere finalmente pubblicato un romanzo a episodi di genere noir-grottesco (che è già stato scritto), e di pubblicare una grande saga familiare ambientata tra la fine dell’Ottocento e il fascismo. Il secondo episodio di De Angelis, invece, è già in cantiere presso il mio editore, la Fratelli Frilli. Dovrebbe uscire a un anno preciso di distanza di Nero come la neve (tarda primavera 2024) che tante soddisfazioni mi sta dando.

All’interno del tuo romanzo si fanno chiari riferimenti ad autori di un certo calibro, devo dedurne  che quindi rientrino a pieno titolo fra i tuoi di riferimento? Se sì, puoi citarne qualcuno e parlarcene, a beneficio di chi ancora non ti conosce? E poi, dato che siamo su Thrillernord, concedi dello spazio anche agli autori nordici?

Sono un lettore onnivoro e spazio fra tutti i generi, tranne il fantasy (ebbene sì, non riesco a leggerlo). Tralasciando gli scrittori-guida, che per me sono soprattutto i grandi autori francesi e russi dell’Ottocento, nel noir i miei riferimenti appartengono alla declinazione mediterranea del genere. Italiani a parte, che non cito per non tralasciarne qualcuno (sono tanti quelli bravi), mi piacciono Vázquez Montálban, Petros Markaris e, su tutti, Jean-Claude Izzo. Tra gli americani adoro Dashiell Hammett, Raymond Chandler, James Ellroy e Don Winslow. Per quanto riguarda gli scandinavi confesso una mia predilezione per Henning Mankell. Sono invece piuttosto allergico ai romanzi che parlano di serial-killer: mi stufano.

Grazie per la tua disponibilità da parte mia e da tutta la redazione di Thrillernord.

Loredana Cescutti

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