Intervista a Michele Giuttari




A tu per tu con l’autore


 

Sono molto contenta di aver avuto l’opportunità di leggere il suo romanzo, anche perché l’ho trovato decisamente molto onesto sul lato umano. Fra le sue pagine, si respira la realtà, quella vera, fatta di sensazioni concrete, frutto della sua personale esperienza, che non è la stessa cosa che fare una ricerca per un dato libro, bensì al lettore arriva potente quella vita che lei ben conosce e a cui lei ha dato tanto, con la quale si è incontrato e scontrato, ma dalla quale ha sicuramente anche appreso molto. Quanto, Michele Giuttari, ha dato al suo personaggio, il commissario Ferrara, in termini di capacità operative e di qualità umane? C’è qualcosa che lei, in questa lunga “relazione” con il suo personaggio, ha invece imparato e ha fatto propria?

A Michele Ferrara ho dato tantissimo: le mie esperienze professionali, le tecniche investigative, il modo di ragionare e di lavorare sui suoi casi, l’atmosfera che si crea con i collaboratori, il linguaggio dei poliziotti…Certo di lui avrei voluto imparare qualcosa ma non è possibile. Avrei voluto imparare come si fa a risolvere i casi complessi in breve tempo. Ma la realtà è tutt’altra cosa.

Le indagini non sono mai solitarie, si lavora in squadra e soprattutto una squadra non si occupa solo di quell’indagine. I tempi sono lenti, le ore di lavoro sono tante e spesso i passi avanti sono microscopici. Quanto può risultare frustrante tutto ciò? Da esperto sul campo le chiedo, aveva qualche “trucco” motivazionale per non rischiare di perdere in concentrazione, così rischiando poi di commettere errori irreparabili?

Nella realtà un’indagine, specialmente se complessa, dura parecchio (settimane, mesi e addirittura anni) a meno che caso molto raro non si riesca a trovare il reo ancora sulla scena del crimine con prove evidenti. Il caso della “pistola fumante”. Invece, in genere bisogna rispettare i suoi tempi fisiologici sviluppando nei modi giusti le specifiche tecniche tradizionali e quelle scientifiche, se necessarie. Nella fiction i tempi necessariamente sono abbastanza ridotti e in questo Ferrara sicuramente è più fortunato del suo autore e della sua squadra che peraltro non possono trascurare altri casi. Nessun “trucco” per rimanere concentrati, ma solo ottimismo sin dall’inizio, dal compimento del primo atto e da non perdere mai altrimenti si rischia non solo di smarrire la concentrazione ma anche di non conseguire un esito positivo. E poi bisogna avere pazienza, una dote, già presente in me, necessaria per il lavoro di un investigatore e che sicuramente l’esperienza ha accentuato. Grazie proprio alla pazienza si può evitare di commettere errori che spesso sono in agguato. Ecco allora che non bisogna accelerare i tempi magari per accontentandosi di un risultato immediato, quale l’arresto dell’indagato o del sospetto, ma occorre mantenere lo sguardo sempre lontano al risultato finale del processo perché si potrà avere un buon processo solo se si è riusciti a lavorare bene senza lasciare ombre o vuoti forse nel tempo incolmabili. Forse non tutti possiedono quest’ottica processuale.

I temi affrontati nel suo romanzo, di cui non parlerò per non rovinare la lettura della storia ai suoi lettori, sono molteplici e lei, ha scelto di non risparmiare nulla a noi e, altresì, ha messo molto in difficoltà il commissario Ferrara e la sua squadra, tant’è che a poche pagine dalla fine, anch’io ero convinta che per arrivare alla verità del fatto più eclatante, quello che farà da filo conduttore a tutta la vicenda, ossia l’omicidio, ci sarebbe voluto un seguito. Può spiegarci brevemente cosa comporta a livello operativo affrontare un’indagine di questo tipo, tenendo conto che ciò che vediamo normalmente nelle serie televisive, molto spesso ha del miracoloso ma non si avvicina minimamente alla realtà?

In tutti i miei romanzi (questo è l’ottavo con Ferrara) ho cercato di rendere le storie il più verosimile possibile per renderle credibili oltre che godibili per i lettori. Ecco allora i temi attuali con i quali può capitare nella vita quotidiana di dover assistere o addirittura doverci confrontare, ad esempio lo spaccio di droga sotto casa, l’omicidio di mafia, la pedofilia, la massoneria deviata. Quest’ultimo tema trattato nella trilogia fiorentina (Le rose nere, i Sogni cattivi e il Cuore Oscuro). Sin dal primo romanzo (Scarabeo del 2004) ho voluto affrontare l’attualità convinto che il genere poliziesco, ritenuto prima minore, in effetti avrebbe potuto affrontare tematiche reali della nostra società trasfuse nella fiction anche per far riflettere i lettori. Certo nelle serie televisive  ciò che si vede quasi sempre ha del miracoloso, ma la realtà è diversa perché ogni indagine ha i suoi tempi e modi di sviluppo, oltre che, mutuando un termine scientifico, un proprio Dna che la contraddistingue da altre che possono apparire analoghe. Nella realtà un’indagine, specialmente complessa come quella in Sangue sul Chianti, va sviluppata con una continua attività di analisi di quanto via via si va acquisendo per formulare ipotesi di lavoro che possono essere riviste con nuovi elementi. Ecco è il ruolo del ragionamento dell’investigatore che è centrale e vero motore dell’inchiesta e che nella pratica rappresenta la caratteristica personale più rilevante per differenziare un inquirente da altri. Il miracolo nella realtà o qualcosa di simile potrebbe essere il colpo di fortuna grazie al quale talvolta si risolve il caso, ma la fortuna bisogna andare a provocarla con il lavoro.

Nel suo romanzo, ad un certo punto qualcuno dice: “… in ogni crimine violento c’è sempre qualcosa che non viene chiarito perfettamente, qualcosa che non ha senso e che talvolta finisce per tormentare gli inquirenti. Una tessera che manca o che solo forzatamente viene inserita nel puzzle delle indagini.” A mio avviso è una frase che rende molto bene la situazione di chi si trova sia da un lato che dall’altro della barricata, perché ovviamente l’obiettivo delle forze dell’ordine è sempre quello di arrivare alla verità, ma talvolta il bisogno di arrivarci forse per stanchezza, pressioni dall’alto, lavoro in eccesso e altre situazioni anche di natura personale, possono in qualche modo togliere obiettività e distogliere l’attenzione dalla realtà dei fatti. Nella sua lunga esperienza, le è capitato di trovarsi in situazioni del genere e se sì, come è riuscito a mantenere o a riprendere il controllo obiettivo di ciò di cui doveva occuparsi?

In parte ho già risposto quando ho riferito della dote della pazienza e dell’ottimismo necessari nella conduzione di un’indagine. Approfondendo, qui aggiungo che possono registrarsi situazioni personali o d’ufficio (tipo pressioni di superiori, che possono non mancare) affinché il caso sia risolto il più presto possibile anche per dare immediate risposte alla cittadinanza. E’ capitato anche a me quando in Calabria mi interessai dei sequestri di persona a scopo di estorsione e in alcuni momenti c’erano anche otto ostaggi tenuti segregati in Aspromonte. Quale responsabile della squadra antisequestri non mi ero mai fatto influenzare da fattori esterni, compresi le pressioni da parte dei vertici. Avevo agito facendo leva sulle capacità mie e dei miei bravissimi collaboratori, oltre che sull’esperienza e soprattutto sul forte senso di giustizia e su quanto la coscienza suggeriva di fare.

Sempre in “Sangue sul Chianti” ho trovato questa frase estremamente essenziale, ma allo stesso tempo molto vera: “Dannata giustizia, forte ed impietosa con i deboli e benevola con i potenti.” Avrebbe voglia di commentarla per noi?

Certo che la commento. E’ una frase che non riguarda l’investigatore, ma la difesa di chi è imputato. L’investigatore ha come primario obiettivo l’accertamento della verità. E’ questo il suo compito chiunque sia il sospetto o l’indagato. Di qualunque ceto sociale. Il problema sorge nel momento in cui l’imputato necessita della difesa. Ed è chiaro che chi ha disponibilità finanziarie adeguate (ceto alto) può contare su una migliore difesa rispetto a chi non può pagare i difensori. Ed ecco che certe condanne ed eventuali misure alternative possono sembrare emesse in modo benevolo rispetto a chi, invece, privo di risorse, è costretto a subire una condanna più grave da trascorrere in carcere. Quindi “benevola” non nel senso di voler favorire i potenti perché la Giustizia deve essere uguale per tutti, ma quale giustizia che nei meccanismi procedurali e processuali si potrebbe dimostrare più favorevole per alcuni.

Un’ulteriore riflessione che arriva diretta dal suo romanzo è questa: “… era la vita del poliziotto. Senza alcuna certezza.” Dalle parole dei colleghi del commissario Ferrara e dallo stesso protagonista che, seppur ancora sposato, pensa spesso a com’è la sua vita, a come conciliare la sua professione con la vita domestica richieda impegno da parte di entrambi mi sono resa conto, che se prima ritenevo difficile gestire le due cose, ma non impossibile, in realtà forse le cose sono più complicate di come appaiono. Cosa significa scegliere di servire lo stato e creare famiglia e cosa comporta o può comportare in termini personali e professionali una scelta del genere? Dati gli innumerevoli incarichi di cui è stato investito nella sua lunga carriera, a cosa ha dovuto rinunciare e come è riuscito a gestire tutto ciò che ruotava attorno alla sua orbita, senza togliere nulla o quasi a nessuno? È stato possibile per lei riuscire a creare un muro fra la sua vita come dottor Giuttari, funzionario dello Stato e il Michele, figlio, amico ecc. o comunque, anche fuori dall’orario di lavoro l’ombra della sua professione le è rimasta sempre in parte appiccicata addosso?

E’ proprio così: l’ombra del poliziotto che è anche investigatore e per giunta responsabile di indagini rimane appiccicata addosso anche quando si torna a casa perché è difficile lasciare fuori dalla porta il lavoro quando si sa che da te dipende catturare un assassino, un sequestratore, uno stupratore, un mafioso… E talvolta, a seconda del caso, è difficile anche prendere sonno. E’ questa la vita quando si sceglie di servire totalmente lo Stato in cui credi fermamente e numerose possono essere le situazioni che possono inclinare il rapporto amicale e anche affettivo familiare se non dovessero esistere una forte intesa e forti sentimenti affettivi. Conosco diversi casi in cui rapporti familiari di colleghi si sono frantumati. Ma non è il caso di Ferrara e di Petra né del suo autore e della moglie a cui sono dedicati tutti i libri e che è la prima lettrice del dattiloscritto. Come pure si è dovuto denunciare a tante cose che per altri sono normailissime, quali trascorrere più tempo in famiglia, godere i riposi settimanali, fare periodi di ferie, viaggi…Tutte cose impossibili quando si è responsabili di uffici delicati. E solo ora, dopo la pensione, sono riuscito finalmente a godere quei momenti.

“Nella vita di un poliziotto difficilmente si osservano così tanti morti ammazzati da diventare insensibili alla loro vista. Ad un certo punto è proprio Rizzo, il vice di Ferrara a pensarlo e a rimanere colpito profondamente davanti alla vittima. Quanto è vera questa frase? Se sì, insensibili lo si diventa per abitudine o semplicemente per mera sopravvivenza?

L’affermazione di Rizzo è vera nella realtà. Non si può essere insensibili davanti alla morte, all’uccisione specialmente di giovani che avevano un futuro davanti. Ed io ne ho visti tantissimi assistendo anche agli ultimi sussulti di vita di giovani sulla scena del crimine. In una occasione anche di un cavallo accanto a due giovanissimi. Sono fatti che non si possono dimenticare perché rimangono scolpiti nella mente. Prima di essere poliziotti si è uomini e non si tratta di abitudine o sopravvivenza.

Come per altri suoi colleghi Frilli, ormai non posso lasciarla andare, se non dopo averle posto una domanda sui luoghi, che nei romanzi giallo pantone di questa casa editrice, rivestono un ruolo di primaria importanza. Lei è messinese di nascita, ha espletato le sue mansioni di investigatore in diverse regioni italiane ma, come mai ha deciso di ambientare la serie del commissario Ferrara proprio in Toscana, a Firenze?

Per più motivi. Firenze è stata la città che mi ha fatto scoppiare la voglia di raccontare, di scrivere in un momento difficile della mia vita professionale. Il capo della polizia, per le indagini sulla vicenda fiorentina mi aveva allontanato dalle indagini con trasferimento in un ufficio meno importante che, per difendere la mia dignità, non avrei potuto accettare. Trascorsi un anno e mezzo chiuso in casa, isolato dal mondo, avendo vicino solo l’affetto di mia moglie. Ottenni giustizia dal Tar e Consiglio di Stato e così potei ritornare nel mio posto di capo della mobile. In quel periodo di isolamento trovai sfogo nella scrittura, mia grande passione adolescenziale, scrivendo Scarabeo che mi fece conoscere in tutto il mondo. Ecco che la sofferenza ingiustamente patita si trasformò in un beneficio inimmaginabile. E da quel momento la scrittura non mi ha più abbandonato e Sangue sul Chianti è il 14° libro tra romanzi, saggi e testo universitario per l’Università di Pisa. E’ di certo curioso, ma per il successo letterario dovrei ringraziare quel capo della polizia per quel strano provvedimento di trasferimento. E poi Firenze mi ispira perché è una città ricca, dove c’è potere e bellezze che tutto il mondo invidia. Ma talvolta affiora il Male che alberga nei suoi visceri e che, come capo della Mobile, ho potuto conoscere. E non è un caso che proprio a Firenze siano state ambientate storie truci come Hannibal di Ridley Scott.

Posso chiederle i suoi progetti per il futuro? Data la conclusione del romanzo, il commissario Ferrara tornerà più impegnato che mai? Ha già qualche idea?

Il commissario Ferrara sicuramente ritornerà e nei tempi giusti tanto ormai si è riposato abbastanza e può riprendere i soliti ritmi. Le idee di una nuova avventura incominciano a maturare anche se attualmente sono impegnato nella collaborazione  a un lavoro di sceneggiatura di un film per il cinema tratto da uno dei miei libri. Una nuova interessante esperienza con importanti sceneggiatori ma con Ferrara e altri della squadra che di tanto in tanto nei momenti di relax continuano a parlarmi. E’ così che nascono le storie. Con i tuoi personaggi che vogliono ritornare in campo e ti stuzzicano. Fino a quando non li porti sulle pagine facendoli agire. E nasce la nuova storia.

Siamo giunti al momento della fatidica domanda destinata a chi gravita nel salottino virtuale di Thrillernord. Lei è uno scrittore, ma è anche un grande lettore? Ha un genere preferito e degli autori di riferimento? Ha lasciato dello spazio anche agli autori nordici? Se sì, può farci qualche nome?

Il mio genere letterario preferito da sempre è il poliziesco. I miei autori? Stranieri e soprattutto anglossassoni. Non me ne vogliano i colleghi italiani che sono altrettanto bravi. Simenon di cui nel tempo ho letto tutto o quasi tutto. Poi Robert Crais, James Ellroy, Ed Mac Bain e, in particolare, Michael Connelly e Jeffery Deaver con cui sono amico e ho avuto il piacere di presentare un suo libro in una libreria fiorentina e in altra occasione di presentare il mio e lui il suo congiuntamente in una importante manifestazione letteraria. Sono ricordi che custodisco gelosamente.  Nordici? Ci ho provato, ma sono sincero: non mi sono entusiasmato. Ho letto qualcosa, tra cui di Lars Rambe, avvocato svedese. Mi sento più vicino agli anglosassoni e penso che i miei libri che all’estero hanno più successo che in Italia (in Inghilterra, prima della lunga pausa, ero, prima, il secondo autore tradotto più letto dopo Larsson e, poi, il terzo dopo Larsson e Nesbo. Primo, però, degli italiani!) forse, oltre alle storie recensite positivamente anche negli USA, hanno quello stile anche nel ritmo che è importante in un thriller.

A nome mio e di Thrillernord, la ringrazio per la sua disponibilità.

Loredana Cescutti.

 

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