A tu per tu con l’autore
Dalla vittoria ad Ioscrittore nel 2014 con La bambina che parlava alla luna alla segnalazione dello stesso romanzo al Premio Calvino, passando per L’amore imperfetto, fino ad arrivare al più recente Di notte i bambini piangono, entrambe editi da Mursia… Come vivi il tuo rapporto con la scrittura? C’è stata un’evoluzione? Sono presenti temi ricorrenti?
La scrittura è sempre stata presente nella mia vita. Ovviamente ho iniziato con quella degli altri. Da piccola, quando andavo a casa di mia nonna, per me la gioia più grande era prendere dalla libreria del salotto un volume dei Quindici e mettermi tranquilla in poltrona a sfogliarlo. Ci passavo ore intere su quella poltrona, sfogliato un volume passavo al seguente. Quando avevo circa sette anni mia madre, che lavorava come domestica presso una signora di Milano, un giorno tornò a casa con un bustone pieno di romanzi. Lessi così L’isola del tesoro di Robert Louis Stevenson, Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain, Cuore di De Amicis, Incompreso di Florence Montgomery. Una volta finiti i romanzi che avevo a disposizione saccheggiavo la libreria scolastica: scoprii Verga, di cui lessi tutte le opere, Il buio oltre la siepe di Harper Lee (tutt’ora il mio romanzo preferito), La fattoria degli animali di Orwell, Il ritratto di Dorian Grey di Wilde e tantissimi altri libri; se dovessi elencarli tutti riempirei pagine intere. Leggere era la mia via di fuga, mi permetteva di essere in posti diversi, lontano da casa ma soprattutto di conoscere altri punti di vista, altre vite che mi offrivano spunti di riflessione sulla mia di vita. La scrittura è arrivata molto tempo dopo, da adulta. Ho dovuto leggere molto prima di trovare il coraggio di scrivere a mia volta. Il coraggio, sì. Perché ogni mia storia è per me una sfida, una prova di forza che ingaggio soprattutto con me stessa. Scrivere mi obbliga ad affrontare i miei demoni, l’abisso che a volte mi si spalanca sotto i piedi. Mi fa toccare il fondo ma è al contempo uno spiraglio di salvezza. Non saprei scrivere in altro modo.
Nel tuo ultimo romanzo si percepisce un grande lavoro sul testo, dalla cura attenta dei vari punti di vista dei personaggi ai passaggi spazio-temporali. Come sei riuscita in questo intento? Non hai mai temuto di disorientare il lettore?
Sinceramente no. La stesura è durata circa tre anni perché mi sono concentrata moltissimo sui diversi personaggi, sforzandomi di dar loro una propria voce, che li caratterizzasse, affinché da soli, nel dipanarsi delle vicende, si presentassero in autonomia al lettore. Dovevano essere immediatamente riconoscibili, senza palesi interventi da parte mia. Come ci sono riuscita? Leggendo autori come Naspini, Mencarelli, Vinci ma anche continuando a scrivere e riscrivere. Una regola non c’è, io credo. S’impara a scrivere solo scrivendo.
La tua scrittura può essere definita un nuovo verismo. Chi scrive si nasconde dietro la propria penna e lascia che i personaggi si muovano in autonomia. Questo amplifica la potenzialità di denuncia sociale del libro. Era il risultato che volevi ottenere?
La tua domanda dimostra che (fortuna mia) ho centrato l’obiettivo. L’autore, restando nascosto dietro le quinte, muove i fili ma non deve rivelarsi. In questo modo la storia, con i suoi personaggi, s’impossessa della scena. È la vera protagonista. E sì, tutti i miei romanzi (almeno fino ad oggi, domani chissà) hanno come scopo principale la denuncia sociale. Sono un grido, l’urlo di coloro che non riescono a farsi sentire.
Di notte i bambini piangono è un libro duro, scomodo. Anche i sentimenti positivi come l’amicizia sono imperfetti, vengono viziati dal pregiudizio e dal contesto sociale che li fa crescere malati. Nel caso di Greta, la protagonista insieme a Cesare, è lecito sperare in un’evoluzione, in un riscatto, oppure l’oppressione dovuta al marciume della società è ineluttabile? I bambini continueranno sempre a piangere?
Domanda tosta. Vorrei dirti che no, i bambini prima o poi smetteranno di piangere ma mentirei. Ho imparato da piccolissima che gli uomini sono tutto tranne che perfetti e di conseguenza lo è tutto ciò che li riguarda. Siamo fallibili, suscettibili al pregiudizio, predisposti alla prevaricazione. Questo è il mio pensiero, dettato dalla mia storia, dalla mia personale esperienza. Ma non tutto è perduto. Esistono il coraggio e l’amore. Al mondo ci sono anche persone come Greta e Cosimo, che cercano la luce oltre la paura, che tentano di emergere dall’oscurità e ci riescono.
Parliamo dell’ambientazione del libro: la periferia degradata di Milano, con i suoi problemi di malavita e illegalità, con i suoi edifici simbolo, la Torre e la Pantafica. Hai un legame personale con contesti simili a quello descritto nel libro?
Sono nata e cresciuta nelle case dell’Aler della periferia nord di Milano. Quindi sì, è al quartiere della mia infanzia e adolescenza che mi sono ispirata nel raccontare la vita alla Torre, il rione in cui si svolgono le vicende di questo mio ultimo romanzo. In quei palazzoni tutti uguali ci abitano tutt’ora i miei genitori e quasi ogni weekend io sono lì e rivedo, con occhi che a tratti tornano quelli della bambina che ero, quei luoghi che, per chi ci nasce e vive, sono entità vere e proprie, totem che continuano, generazione dopo generazione, a definire confini, gerarchie e relazioni.
Il tuo libro è appena uscito e adesso ti aspetta la fase di promozione, ma puoi dirci se hai già qualche altro progetto o sogno nel cassetto?
Sto lavorando da un anno circa a un thriller psicologico. È un genere che mi affascina molto come lettrice e che trovo estremamente complicato. Come dicevo prima mi piacciono le sfide. Un sogno nel cassetto? Un bel premio, come il Flaiano o il Campiello. Sognare in grande è la mia forza propulsiva e poi non nuoce a nessuno, no?
Nunzia Volpe
A cura di Chiara Forlani
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