Intervista a Sandro Campani




A tu per tu con l’autore


 

Cosa rappresenta l’Appennino tosco-emiliano per Sandro Campani?

L’Appennino – una parte limitata dell’Appennino – è innanzi tutto la terra in cui sono nato e cresciuto, e che ho avuto intorno; con un disagio che appena smesso d’essere un bambino ha cominciato a crescere. Non credo che riuscirei ad abitare da nessun’altra parte, pur avendo quella sorta di malinconia fortissima verso i posti dove capito da turista, quel desiderio per le vite che non hai vissuto che ti prende altrove, e che spesso genera le storie; l’Appenino è il mio qui, e nello stesso tempo è un altrove perché sento di non appartenere davvero alla terra nel modo in cui avrei dovuto. Per esempio non la so coltivare, per esempio non ne so fare i mestieri; quindi lo trasfiguro e lo reimmagino, per trasporre con grande rispetto a un livello estetico le uniche cose che io posso dare indietro a questa terra, cioè il mio sguardo e la mia scrittura. Perché comunque, ci ragiono tanto su questa cosa, certe volte la mia terra mi sembra un rimpianto: la calpesto, ci affondo, ma mi chiedo come ci vive davvero la gente che la vive, e a me sembra di non viverla, e mi sento spiantato.

Quanto contano le radici e il passato per uno scrittore?

Ecco, a proposito di quel che dicevamo prima. Sono importantissime. Credo che per scrivere ci sia bisogno di una crepa, di un buco da indagare; che ci sia bisogno di un disagio, che ti dà uno sguardo spostato, laterale. Quindi le radici sono importanti anche nella misura in cui ti mancano, e ti senti sbalestrato dalla loro mancanza. Farei un brutto servizio alla terra se badassi solo a ribadire le radici, o a confermare delle immagini. Forse proprio sentir sfuggire l’appartenenza fa sì che io ne scriva con un’attenzione maggiore: di fronte a ciascuna cosa che racconto, devo avere il rispetto dovuto a ciò che non conosco, e questo vale anche per la terra che avrei voluto dire mia. Per quanto riguarda il passato, c’è un po’ lo stesso pericolo. L’epoca in cui eri bambino, o preadolescente, è il pozzo a cui attingere per riscrivere fondamentalmente sempre la stessa storia, però è anche una cosa da cui devi guardarti. Il passato è rischioso, perché mano a mano che cresci tendi a essere indulgente col rimpianto che il passato provoca, rischia di sembrarti importante a prescindere. Più vai avanti e più devi tenere a bada e contrastare il demone della nostalgia, che rende ancora più complicato raccontare ciò che già non possiedi per intero.

Chi è davvero Luchino?

Chi lo sa! Ognuno dei personaggi ne ha una sua versione, e molti di noi hanno un loro Luchino, nella vita. È quella figura affascinante, sfuggente, che pare essere sempre un passo avanti a noi nella vita, vedere le cose nella loro vera essenza, saperle cogliere, avere tutte le possibilità davanti, prendersi anche il lusso di sprecarle. Io avuto quando ero adolescente un amico più grande che mi ha insegnato il mondo, e in altri momenti della mia vita ho avuto delle fascinazioni per dei personaggi che mi sembravano incarnare ciò che avrei voluto essere e non sarei mai riuscito a diventare. Luchino in fondo è questa cosa qui; è un’assenza che ciascuno degli altri personaggi riempie a proprio modo: con la propria malinconia, il proprio rancore, le proprie delusioni, le speranze, il proprio amore, il proprio odio.

“I passi nel bosco” è un romanzo a più voci. Com’è nata l’idea di un romanzo corale?

È un’idea che mi porto dietro da quando ho cominciato a scrivere, ma da ancor prima in realtà, perché quando ho cominciato a scrivere con l’idea di pubblicare ero già abbastanza grande, sui venticinque anni; invece prima, a scuola, senza averne minimamente le basi, facevo ste robe a più voci, scimmiottando Faulkner su dei fogli protocollo in modi vergognosi, e per fortuna ho buttato via tutto. Mi viene da ridere perché ho cominciato a leggere Faulkner alle elementari, è stata una sbandata che mi ha lasciato storto per tutta la vita. Figurati cosa ci potessi capire, non ci capisco niente neanche adesso. Adesso comunque sento di avere la consapevolezza tecnica necessaria per gestire una storia corale, e finalmente l’ho fatto. Finalmente, dico, perché imitare le voci è una cosa che mi è sempre piaciuta. È un modo molto bello di raccontare, specie una storia come questa in cui il personaggio principale, il fulcro, è assente: sarebbe stato impossibile raccontare l’assenza di Luchino, ad esempio, attraverso una terza persona onnisciente, perché a quel punto avrei dovuto render conto di cosa succede nell’ombra in cui Luchino si nasconde; invece così posso lasciarlo opaco. E d’altro canto, raccontarlo in prima persona ma con un solo punto di vista non avrebbe reso questa figura assente così imprendibile, sfaccettata e misteriosa. E poi nel corso degli anni ho sempre avuto un amore per un certo tipo di storie che costruiscono una comunità seguendo la vita quotidiana di tanti personaggi: Twin Peaks su tutto, ma anche il cinema di Atom Egoyan (il dolce domani, exotica…) I racconti dell’Ohio, I pascoli del cielo…

Quale sarà il tema del suo prossimo lavoro?

Forse, siccome sono sempre stato così sempre sghembo e contorto nella costruzione, sarebbe una bella sfida raccontare per la prima volta una storia lineare, compatta. Ho un’idea che mi piace, ma è solo un’idea: devo lasciarla riempire di luoghi, di persone, farla sedimentare un po’; ci vorrà del tempo.

Sandro Campani

Cristina Bruno

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