Sorj Chalandon
Traduttore: Silvia Turato
Editore: Guanda
Collana: Narratori della Fenice
Genere: Narrativa
Pagine: 336
Anno edizione: 2024
Sinossi. La sera del 27 agosto 1934 cinquantasei ragazzini evadono dalla Colonia penale per minori di Belle-Île-en-Mer, un’isola al largo della Bretagna. Subito le guardie e i gendarmi organizzano una vera e propria caccia, a cui prende parte anche la «brava gente» del posto e perfino qualche turista. La ricompensa è di venti franchi per ogni fuggiasco. In poco tempo tutti vengono catturati. Tutti tranne uno, non sarà mai ritrovato. Quando viene a conoscenza di questa storia Sorj Chalandon pensa: quel ragazzino sono io. Immagina il suo nome, Jules Bonneau, racconta la sua storia. Jules, abbandonato dai genitori, vive in casa dei nonni paterni, che non esitano a liberarsene appena finisce davanti alla Giustizia. A soli tredici anni si ritrova in un cosiddetto Istituto di rieducazione, in realtà una prigione. Dentro quelle mura, Jules impara a farsi rispettare e temere, guadagnandosi il soprannome di Tigna, per sopravvivere a una realtà dominata da soprusi e violenze. E mentre sogna di diventare marinaio, dentro di lui cova una rabbia che fa fatica a contenere. Chalandon si infila nella pelle di un ribelle cresciuto senza amore e scrive il suo romanzo più potente, che più gli assomiglia: «Perché questa rabbia è sempre stata in fermento dentro di me. È una rabbia autobiografica». E a quel ragazzo che avrebbe potuto essere lui, vissuto nell’oppressione degli adulti e della società, offre una possibilità di salvezza, quella di aprire i pugni per accogliere mani amiche, e trasformare la sua furia in bellezza, l’odio in fiducia.
Recensione di Loredana Gasparri
Dopo aver letto la sinossi, tre cose mi hanno immediatamente agganciato. L’evasione dei ragazzini dalla colonia penale, l’immedesimazione di Chalandon nell’unico evaso che non viene più trovato, e il fatto che fosse un evento reale.
Ero consapevole che, con il nome dell’autore, sarei entrata in un mondo crudo, prepotente e furioso, e che la sofferenza di cui mi avrebbe parlato mi avrebbe messo a disagio. E questo è un libro che non solo mette a disagio chi legge, ma potrebbe insegnarlo da una cattedra universitaria.
Ed è anche un libro perfetto. Perfetto perché c’è tutto. Crudeltà, cattiveria, supponenza, perbenismo, bellezza, gentilezza, sofferenza, espiazione, vendetta, genio, stupidità, avidità, generosità, resistenza, forza, debolezza, speranza. Nominate una caratteristica alta e una bassa dello spirito umano, e la trovate in queste pagine, raccontate con uno stile vivo come un cuore pulsante, feroce e impietoso come un urlo, tradotte magnificamente dal francese.
La colonia penale di Belle-Île-en-Mer in Bretagna dovrebbe essere un istituto di rieducazione per bambini e adolescenti, dai 12 ai 21 anni, in cui i giovani sbandati (soprattutto orfani che non vuole nessuno) vengono tolti dalle strade del vizio, dotati di vitto e alloggio e di un mestiere, come marinaio o agricoltore, in modo che possano essere ‘raddrizzati’ e possano ritornare ad essere bravi cittadini e contribuenti dello Stato magnanimo che ha dato loro la possibilità di salvarsi dal crimine.
Questo sulla carta, e nell’ampia compiacenza ipocrita e cieca di un certo strato della popolazione, quella più fortunata e che sta fuori dai guai, e che s’illude di aver buon cuore perché tratta gli sfortunati come mandrie da ammassare in gabbie, camuffandole da istituto di rieducazione.
Questa idea della rieducazione e del raddrizzare le schiene degli ‘sfortunati’ sfiancandoli di lavori pesanti ha fatto proseliti in parecchie parti del mondo. Qui siamo negli anni ’30 in Francia, e i loro vicini di casa di lingua tedesca si erano già dedicati ad applicare il concetto su vasta scala… forse qualcosa è passato per osmosi da un confine all’altro.
Nella realtà, questa colonia penale è un inferno vero e proprio. Ragazzini la cui unica colpa è quella di essere stati abbandonati dai genitori, oppure nati orfani, rifiutati da tutti, e aver cercato di sopravvivere rubando il cibo nelle fattorie, senza avere la possibilità di scegliere altro.
Quando varcano quei cancelli, sono sottoposti ad abusi e maltrattamenti in continuazione da guardie e sorveglianti psicopatici. Adulti falliti che detengono un potere minimo, che chiunque al di fuori di quell’inferno guarderebbe dall’alto in basso, e che si prendono orribili rivincite su chi dovrebbe essere educato, protetto e aiutato a crescere.
La rivolta che porta all’evasione di cinquantasei ragazzini in una notte nasce per caso. La stessa fuga è un’idea che sorge furiosa sul momento, senza alcuna pianificazione. Qui non c’è Michael Scofield e il suo ingegno sottile di Prison Break, ma un Jules Bonneau che ragiona veloce con la testa, oltre che con i pugni.
È lui quello che sfugge agli artigli delle guardie e dei benpensanti ipocriti e oltraggiati, grazie ad un pescatore temerario e forte come granito, Ronan, che gli starà accanto fino alla fine.
Evadere dalla colonia sembra facile, a paragone di quello che aspetta Jules Bonneau, conosciuto come la Tigna, dopo. In effetti, le parole più spaventose qui sono: che cosa avviene adesso? Ora che il ragazzo è libero dalle sbarre, che cosa farà?
Se questo fosse un romanzo o una serie americani, il protagonista sarebbe avviato, con tutta probabilità, su una strada di completa redenzione. Il mestiere di pescatore lo condurrebbe ad una vita onesta, magari ad avere amici, e chissà, negli anni un’attività. Un finale felice, ricco di quelle opportunità che all’inizio della sua vita gli sono state negate con decisione.
Qui, non è così semplice. Anche nel dopo, c’è moltissima tensione. Le persone che danno una mano a Jules hanno motivazioni molto precise e che, se fossero esposte, le metterebbero al suo livello di criminali, almeno agli occhi delle autorità. Ho amato moltissimo questa parte del libro, e ho ammirato i personaggi, e la genialità dell’autore. Chalandon è stato un genio, vero e proprio, raccontando questa parte.
Ha evitato le soluzioni facili, con coraggio. Se lo incontrassi, oltre a dargli del genio, gli direi che immedesimarsi in Bonneau è stato un atto di temerarietà e di amore senza pari. Ho letto un paio di interviste che ha rilasciato all’uscita del romanzo, in cui spiegava perché lui era Jules Bonneau, e le ho amate almeno quanto questo libro.
Come per La quarta parete, ripeto che questo libro deve essere letto, ma non da tutti. Se volete i lieto fine, o le cose facili, dirigetevi su altro. Ma se scegliete di leggerlo, dovrete resistere al dolore di vedere la vostra sensibilità ferita e strofinata con sale e cartavetro. Guarirete, perché troverete anche queste parole nella storia, e poi cercate in Internet le interviste di Chalandon. Vi daranno pace.
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Sorj Chalandon
è scrittore e redattore del settimanale francese Le Canard enchaîné. Dal 1974 al 2007 ha lavorato come reporter per il quotidiano Libération, seguendo alcuni tra i maggiori conflitti internazionali degli ultimi decenni. Con i reportage sull’Irlanda del Nord e il processo a Klaus Barbie ha ottenuto il Prix Albert-Londres nel 1988. Tra i suoi romanzi ricordiamo: Il mio traditore, Chiederò perdono ai sogni (Grand Prix du Roman de l’Académie française), La quarta parete (Prix Goncourt des lycéens, Premio Terzani), La professione del padre, Una gioia feroce. Con questo suo ultimo romanzo, La furia, Sorj Chalandon ha vinto il Prix Eugène Dabit du roman populiste 2024.
A cura di Loredana Gasparri