La memoria del giglio




ALESSANDRA LIBUTTI


Sinossi. Un romanzo che abbraccia, punteggiato di luminose figure femminili, che è un omaggio alla resilienza e all’amore per il sapere. Volterra, 1872. Le nozze del conte Lodovico con Adele sono una rivoluzione per i Ruggieri Buzzaglia: la sposa, una ragazza senza cultura che era stata serva in casa loro, fa il suo ingresso in famiglia come contessa. Ma coi suoi modi schietti e risoluti, Adele assolve subito con dedizione ai doveri che come donna e moglie la società le impone. Eccola dunque muoversi tra le stanze del palazzo con il ventre sempre gonfio, impegnata a dare una discendenza al marito, un uomo mite e dalle idee progressiste. Per Livia, la quarta degli otto figli della coppia, quella madre provata dalle continue gravidanze è una creatura misteriosa. È piccina, Livia, quando decide che le faccende di donne non le interessano, e poco più che bambina quando sua sorella maggiore, Babà, affronta il padre con coraggio, chiedendogli il permesso di diplomarsi: per seguire la sua vocazione di maestra è disposta a rinunciare agli agi della nobiltà, e a trasferirsi da sola in un paesino arroccato sulle montagne. Il suo gesto ribelle aprirà una crepa nella storia della famiglia, che nelle pagine di questo romanzo è la voce di Livia a raccontarci: il filtro della sua memoria, quello di una donna schiva, che non ha mai reclamato per sé un ruolo da protagonista, ripercorre l’epopea dei Ruggeri Buzzaglia attraverso decenni di passioni, miserie e rivoluzioni fino al secondo dopoguerra. Per restituirci la fotografia di quattro generazioni di donne – la genealogia dell’autrice – capaci di scrivere il proprio destino con l’inchiostro della tenacia.


Editore: Rizzoli

Collana: Scala italiani

Pagine: 400 p., Brossura

Anno edizione: 2025

 Recensione

di

Sabrina De Bastiani


Da quel momento, ogni volta che salivo le scale, ammiravo il suo ritratto: forte, indipendente, capace di attraversare la vita con grazia indomabile. E forse – ora che so di non avere nessuna di quelle qualità – provo una lieve invidia per quella me bambina, che sapeva ancora immaginarsi diversa.

Ci sono romanzi che, nel raccontare  una storia,  costringono a guardare la propria con occhi nuovi. 

La memoria del giglio di Alessandra Libutti appartiene a questa categoria: è un libro che scava, che interroga, che mette in crisi certezze e al contempo restituisce dignità a voci rimaste troppo a lungo soffocate.

La trama, mai puro artificio narrativo,  è carne e sangue, memoria che si fa corpo e diventa genealogia. Dentro le pagine si respira la lotta delle donne che hanno dovuto far fronte a un destino imposto, di generazioni che hanno abitato la maternità non come scelta  

ciascuna madre smarrita negli universi che aveva generato, ma dimentica di quello intimo e profondo che le apparteneva.

ma come ‘condanna’ sociale

Ma essere madre era una condizione esistenziale, un dovere che la società le aveva assegnato come unica strada.

Da qui batte il cuore del romanzo, e da qui si allarga la riflessione su cosa significhi davvero essere madre, figlia, donna.

Individuo.

La scrittura di Libutti è lucidissima, quasi chirurgica nel denunciare le storture del passato, ma al tempo stesso poetica nel riconoscere la forza delle figure femminili. Barberina, con il suo rosario infinito che diventa piccola speranza,  grano dopo grano, incarna quella tenacia silenziosa nell’attraversare un percorso di identità, che muove e commuove. 

«… questo rosario è troppo lungo… non finisce mai!» Allora Barberina mi sorrideva e, con la mano libera, accarezzava i capelli di entrambe. «Lo so, sembra lungo, ma ogni grano è una piccola speranza.»

E noi ci rimettevamo a pregare.

Livia, voce narrante di abbacinante  purezza, confessa la propria repulsione infantile per la femminilità, vissuta come destino di sottomissione

L’idea di essere femmina mi ripugnava, come se nella lotteria della vita mi fosse stato consegnato il biglietto sbagliato. 

Volevo essere come mio padre, non come mia madre. (…) Guardavo avanti e vedevo solo corpi che si piegavano, pance che si gonfiavano, il sangue che ritornava. Una vita che non volevo. Avevo vissuto i primi dieci anni della mia esistenza scontrandomi col lato distruttivo della maternità. Così giurai a me stessa che mai, mai, mai sarei diventata madre.

Una ribellione precoce, che rivela la frattura tra il desiderio di libertà e l’immagine femminile trasmessa dalla società. Eppure, proprio da quella ferita, nasce la possibilità di immaginare un’altra strada.

Il romanzo è disseminato di contrasti.

Padri illuminati che predicano giustizia sociale ma che, quando si tratta di donne, mostrano tutta la zavorra culturale che li imprigiona

«Babbo, perché mi allontana? Proprio lei che mi ha insegnato che la giustizia sociale parte dall’alfabetizzazione.

Proprio lei che mi ha fatto leggere Rousseau? O è forse che ritiene sia una cosa giusta solo se fatta da altri, soprattutto se uomini?»

Fu in quel momento, e nel silenzio che era seguito, mentre Barberina attendeva, che toccò con mano la piaga di quella questione: la spaccatura profonda tra il suo personale anelito alla libertà e la cultura che lo aveva formato. Con il primo aveva cresciuto noi, le donne del futuro: ci aveva modellate attraverso una vicinanza affettiva e intellettiva e ci aveva aperto le porte dell’avvenire. Come poteva ora sbattercele in faccia?

Figlie che si scoprono ordinarie in un mondo che permette diversità solo se straordinarie

A quei tempi, se volevi essere diversa, dovevi essere straordinaria. Io invece ero solo una bambina ordinaria, smarrita tra le tante; disarmata nella lotta contro la consuetudine.

Madri che non hanno visto la gabbia in cui vivevano e figlie che la vedono, ma devono trovare il coraggio di aprirla da sole

«Le ho chiesto se avesse mai pensato di fare altro invece di sposarsi.»

«E lei?»

«Si è messa a ridere. “Ma bambina mia” mi ha risposto, “cos’altro avrei mai dovuto fare?” Capisci la differenza, Livia?»

Non la capivo.

«Ha detto: “dovuto” non “potuto”. La differenza tra noi e lei è tutta lì: noi siamo in grado di contemplare l’alternativa, di vederla almeno come una possibilità. Lei quella gabbia non la vedeva nemmeno. Ci stava chiusa dentro ma non la vedeva. Noi sappiamo che c’è, Livia. Ne siamo consapevoli. Ma la porta non ce la aprirà mai nessuno. Possiamo solo farlo noi»

È il punto di non ritorno, la  consapevolezza che cambia tutto. 

La prosa di Libutti ha una nitidezza e una messa a fuoco fotografica,  la memoria viene descritta come una pellicola esposta agli eventi, sensibile ai bagliori. 

Ed è così che il romanzo funziona, come una sequenza di scatti, ora teneri ora spietati, che fissano il passaggio da un mondo in cui la donna era invisibile a un tempo in cui la possibilità di scelta diventa la vera eredità.

Alla fine, La memoria del giglio è un libro che ferisce  e che  insieme cura: ferisce  perché mette in luce ingiustizie che ancora oggi non smettono di perseguitare, cura perché restituisce dignità alle genealogie femminili, trasformando la loro fatica in seme di libertà. 

La sua forza era capace di trasformare il paesaggio della vita. Sapeva che sarebbe stato arduo come scalare una montagna ripida, ma la vista dalla vetta, il sogno di una società più giusta, era una ricompensa troppo grande per essere ignorata.

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Alessandra Libutti


(Roma, 1967) è laureata in Storia e Critica del Cinema. Ha collaborato alle riviste «Cinema D’Essai», «Music & Arts» e alla webzine «Granbaol». Vive e lavora a Hertford, in Gran Bretagna.