L’Iliade di Bobby Fischer
Autore: Alessandro Barbaglia
Editore: Mondadori
Genere: Narrativa biografica
Pagine: 192
Anno di pubblicazione: 2022
Sinossi. “Cosa succede a chi rifiuta il mondo per giocare solo a scacchi se poi gli scacchi lo fanno diventare campione del mondo?” La mossa del matto è la storia di una vita, quella di Bobby Fischer, e il tentativo di rispondere a questa domanda partendo dalla ricostruzione della finale del campionato mondiale di scacchi del 1972, la sfida del secolo, quella tra il “matto” americano – Bobby Fischer – e il campione in carica: il leggendario scacchista russo Boris Spasskij. Giocata in piena Guerra Fredda, quella sfida USA-URSS è molto di più di una “semplice” partita di scacchi. E se Spasskij è un gentiluomo, un fine stratega, uno che sa come va il mondo, Fischer è un essere furioso. Di più: Bobby Fischer è una contraddizione vivente. Ha un quoziente intellettivo molto al di sopra della media ma crede ai predicatori radiofonici che profetizzano la fine del mondo, non ha la licenza elementare ma è un genio degli scacchi, un gioco che ha monopolizzato la sua esistenza da quando, a sette anni, ha imparato a muovere i pezzi su una scacchiera di plastica leggendo il foglietto delle istruzioni. Le sue bizzarrie sono innumerevoli: tutti lo aspettano a Reykjavík, sede del campionato, ma lui non c’è. Si fa attendere finché non verranno accolte alcune sue peculiari richieste, tra cui quella di aumentare il premio in denaro per il vincitore. Fa pensare ad Achille che, offeso, rifiuta di prendere le armi: se ne sta nella sua tenda, ritirato nel cuore del conflitto di cui è il baricentro. I suoi nemici sono i Troiani, quelli di Fischer sono i Russi. L’assedio dura dieci anni, e il dominio troiano resiste, al pari di quello sovietico sulla scacchiera. E le analogie non finiscono qui… Barbaglia, a cinquant’anni esatti dai fatti, ci offre una ricostruzione dettagliatissima della sfida del secolo, sulla base di un imponente materiale documentario. E la illumina con lo sguardo dello scrittore, che in questo scontro epico riconosce le figure archetipiche di uno dei miti fondativi della nostra cultura, l’Iliade, in cui si scontrano la ferocia di un guerriero assetato di sangue e l’intelligenza calcolatrice di uno stratega.
Recensione di Edoardo Guerrini
La mossa del matto è un libro di narrativa biografica?
Non sarei così d’accordo. Alessandro Barbaglia, nell’accompagnarci insieme a lui, come Virgilio con Dante, a immergerci nella storia di Bobby Fischer e del mitico campionato del mondo di scacchi del 1972 a Reykjavik (Islanda), acconsente anche a condividere con il lettore le proprie personali motivazioni che lo hanno condotto all’immenso lavoro di studio della figura, e della vita, di questo famosissimo campione di scacchi. Parafrasando Benedetto Croce, come faccio spesso, direi che questo romanzo è l’emblema del “Perché non possiamo non dirci Proustiani”. Perché Bobby Fischer, per Alessandro, è come la madeleine per Proust, o meglio per il suo incognito protagonista. Pensando a Bobby Fischer, Alessandro rivede una scena vissuta a cinque – sei anni, quando giocando semisdraiato sotto un tavolino di pietra, nel giardino della casa natale di Miasino, in faccia al Lago d’Orta, il bimbo Alessandro ascoltava suo padre interrogare sé stesso, e i propri amici, psicologi come lui, sulla figura di Bobby Fischer.
Nell’ascolto della rievocazione di quel famoso campionato mondiale, della sfida tra Fischer e Spasskij, una frase in particolare colpisce il bambino che ascolta seduto sotto il tavolo:
«Bisognerebbe indagare l’istante in cui nella sua mente si è spento il mondo ed è rimasta accesa solo una luce che illuminava una scacchiera.».
Ovvero, ristudiando la vita e la memoria di Bobby Fischer, Alessandro in realtà si reimmerge nella vita e nella memoria di suo padre, e compone un fitto dialogo con lui. Un padre che manca ad Alessandro: perché lo perse pochi anni dopo, a dodici anni di età, portato via da un male incurabile a soli quarantadue anni.
Una breve digressione personale: io posso capire bene i sentimenti attraversati da Alessandro. Perché pure io, tra l’altro anch’io lo stesso anno, nel 1992, anche se di anni ne avevo ben di più, ventisette, persi entrambi i genitori che comunque avevano ancora un bel po’ di vita davanti, portati via da un incidente stradale.
Un fatto improvviso, una malattia che nel giro di pochi mesi si porta via uno dei pilastri portanti della tua vita, un genitore amatissimo, lascia per sempre un senso di vuoto.
Ma in un certo senso questo viaggio intrapreso da Barbaglia rappresenta una sorta di autocura di questa sensazione: perché ripensare alla vita di Bobby Fischer, alla sua figura decisamente singolare, ricca di genio ma anche di patologie psicologiche, porta Alessandro a ripercorrere non solo le stranezze di Fischer, ma anche il percorso mentale operato da suo padre per comprendere le origini e le possibili cure di quelle stranezze. Perché in realtà per suo padre quelle su Fischer erano riflessioni che lo aiutavano a capire un suo paziente: un bimbo che non voleva uscire dalla sua cameretta, mai.
Oggi forse la chiameremmo “sindrome hikikomori”, ma Barbaglia non scende in questi dettagli: anzi, sviluppa ben altra analogia. Perché, forse anche grazie ai suoi studi sulla scrittura e sugli archetipi, Alessandro vede nella figura di Bobby Fischer un’analogia evidente con una storia ben nota da migliaia di anni: quella di Achille.
Fischer è Achille, l’eroe senza labbra, colui che, come da schema classico del “viaggio dell’eroe” (Campbell, Vogler), riceve una chiamata a una prova difficile, e lì per lì la rifiuta. Achille, perché era offeso in quanto Agamennone gli aveva portato via la sua schiava, Briseide; Fischer, che doveva partire per Reykjavik essendosi qualificato per la finale del campionato mondiale, non sappiamo perché rifiuti di partire.
Certo è che si fa convincere da Henry Kissinger, chiedendo in cambio il raddoppio del premio finale per il vincitore!
E in questa immersione negli archetipi eroici, Alessandro trova pure ben altra analogia, riguardo a Spasskij.
Forse qualcuno potrebbe pensare che Spasskij sia paragonato ad Ettore, l’eroe che tutti abbiamo amato ben più di Achille leggendo l’Iliade, in quanto è colui che si ritrova a dover fronteggiare Achille, lo combatte senza paura, e perde. E fa una bruttissima fine, appeso per i piedi al carro di Achille e trascinato nella polvere intorno alle mura di Troia: la scena per cui tutti abbiamo odiato per sempre Achille.
Ebbene, no, Alessandro non ci vede Ettore in Spasskij: ci vede Ulisse. Ulisse, che seppure come personaggio di secondo piano, in effetti ha un ruolo importante anche nell’Iliade, prima di intraprendere la sua personale “Odissea”.
Per esempio, Ulisse è proprio colui che convince Achille a prendere le armi, grazie ad un trucco con cui lo smaschera in un gineceo, dove sua madre Teti lo aveva nascosto, travestito da donna, per non farlo andare in guerra; visto che la profezia aveva detto che sicuramente lui, in guerra, sarebbe morto.
E così quell’Ulisse – Spasskij accompagna Fischer nella battaglia, e in alcuni passaggi fondamentali risulta determinante nel fare quasi da padre per quel ragazzo così geniale e così disturbato; per esempio, accettando di disputare le partite successive del torneo in uno sgabuzzino delle scope, al riparo dal pubblico e dal ronzio delle telecamere; e accettando le sfide scacchistiche del geniale giocatore americano, spingendo sé stesso e il proprio avversario a delle vette inaudite di complessità e novità nell’utilizzo di mosse mai usate prima.
E qui arriviamo alla frase chiave del libro, quella con cui il padre di Alessandro lo lascerà, le sue ultime parole. Non ve la svelo, perché arriva alla fine e dovete arrivarci e avere la stessa commozione che ho avuto io leggendola.
Perché quella frase, in un certo senso è quella che illumina tutto il romanzo dandogli un senso complessivo che giustifica questo immenso viaggio. Perché nell’aprire il proprio cuore ai lettori, Barbaglia ha così avuto la possibilità di illuminare i nostri cuori con un senso di tiepidezza, di sollievo, di memoria che dà conforto: come un raggio di sole che illumina un giardino bellissimo davanti a uno dei laghi più belli del mondo.
Insomma, questo libro, questo viaggio nella memoria paterna, questa accurata ricostruzione di un personaggio complesso come Robert Fischer, è un grandissimo libro,
forse il migliore fra i tanti bei libri cui Alessandro Barbaglia ci ha già abituato finora. Da leggere assolutamente.
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Alessandro Barbaglia
è nato nel 1980 e vive a Novara. Per Mondadori ha pubblicato La Locanda dell’Ultima Solitudine, finalista al premio Bancarella, L’Atlante dell’Invisibile, Nella balena, e Scacco matto tra le stelle, con cui ha vinto il premio Strega Ragazzi. Ha inoltre curato l’antologia di poesia Che cos’è mai un bacio? I baci più belli nella poesia e nell’arte (Interlinea, 2019) e, per il canale podcast pocketstories.it, racconta “Storie vere al 97%” da cui è stata tratta una raccolta di racconti. Ha collaborato con Arturo Brachetti alla scrittura del podcast “Et Voila”.