Recensione di Francesca Mogavero
Autore: Anne Enright
Traduzione: Milena Zemira Ciccimarra
Editore: La nave di Teseo
Genere: Narrativa
Anno di pubblicazione: 2020
Sinossi. Katherine O’Dell è una leggenda del teatro irlandese. Sua figlia Norah, nel corso di un’intervista, inizia a tratteggiarne un ritratto, rievocando la figura magnetica e ingombrante della madre. Katherine aveva conosciuto il teatro seguendo la compagnia di cui faceva parte il padre per poi approdare a Londra, Broadway e, infine, Hollywood in un’ascesa fulminea e inarrestabile. Ma il successo, arrivato così rapidamente, altrettanto velocemente la abbandona. Per lei, abituata ai riflettori e alle attenzioni della gente, è un duro colpo che la porta a distaccarsi dalla realtà, in un crescendo di follia che le fa compiere un bizzarro crimine. Raccontando la diva Katherine O’Dell, Norah svela anche la sua storia: il loro rapporto difficile ma forte, i litigi e i chiarimenti, l’atmosfera dell’Irlanda degli anni settanta in cui è cresciuta. Un flusso di coscienza che mischia nostalgia e disincanto, tenerezza e dolore tra il suo dover essere figlia e il voler essere se stessa. Anne Enright costruisce il ritratto raffinato e commovente di due donne allo specchio, due generazioni femminili alle prese con la libertà, il desiderio sessuale, la fragilità, la ricerca della fama, il bisogno dell’amore.
Recensione
Avere una madre attrice potrebbe essere una commedia o una tragedia, in ogni caso, qualunque sia il genere predominante, una costante finzione.
Dove finisce il personaggio e dove inizia la persona?
Accostandoci al romanzo L’attrice di Anne Enright potremmo quindi aspettarci l’ennesimavariazione sul tema Mammina cara, la manciata di sassolini di cui finalmente liberarsi, l’ex bambina cresciuta nell’ombra e nutrita a pane e risentimento, burro e confronto, marmellata e solitudine.
No, Norah FitzMaurice in fondo non ha conti in sospeso con sua madre, la meravigliosa Katherine O’Dell, né particolari errori da rinfacciarle – anche perché dichiarare che la propria madre non era una brava persona “viene considerato un segno che sei squilibrata, perché nessuna madre è una cattiva persona. È una cosa impossibile” – ma, a distanza di anni dalla sua morte, si domanda perché non abbia mai scritto di lei nonostante una discreta carriera da autrice, perché lo facciano altri – con quale diritto, con che presunzione, poi – al posto suo.
Così, l’incontro con una giovane ricercatrice che crede di possedere già tutte le risposte innesca il meccanismo, fa saltare la serratura del baule dei ricordi, dà il via a un ritorno al passato che mastica il presente e lo interpreta sotto una nuova luce.
Tra rievocazioni di feste casalinghe orchestrate ad arte, pomeriggi sotto i ciliegi a creare haiku, richieste di affetto e di conferma, l’affacciarsi della follia, emerge un rapporto tra madre e figlia tenero e sincero, in cui i ruoli spesso si invertono per poi ribaltarsi del tutto, l’unico punto fermo di un mondo che corre troppo veloce, imponendo ritmi, ruoli, identità, nazionalità.
Katherine sarà suora e infermiera, diva e femme fatale, sarà troppo “vecchia” per alcune parti, troppo inesperta e inadatta per altre, sarà astro fulgido e cadente, idolatrata, abbandonata e dimenticata, ma solo sul palco e sullo schermo: nella vita con sua figlia, prima di lanciare un ultimo sguardo allo specchio e darsi in pasto al pubblico, sarà sempre la stessa, fragile e sbadata, ma felina nel suo modo imperfetto di proteggere la propria creatura (“Cosa ho mai fatto, per meritare qualcosa di bello come te?”), amatissimo frutto di un amore che “Ah. Sì. Non doveva essere” e deve restare sullo sfondo, fumoso, vagheggiato e impalpabile come una scenografia, come il pulviscolo illuminato solo per un attimo dall’occhio di bue. Un non-padre che resta dietro le quinte, fino a un’amara scoperta, chiave e interpretazione di ogni gesto sconsiderato, ogni scelta, ogni giorno vissuto e non vissuto.
Un viaggio a ritroso che Norah compie con gli occhi di oggi, tutto sommato serena, consapevole di essere arrivata là dove voleva e doveva, a sua volta madre, compagna di un uomo che ancora desidera – un uomo a cui si rivolge nel corso dell’intero romanzo, un uomo che non risponde, che non è mai in casa quando lo cerca, ma che c’è in mille altri modi, che vede e ascolta.
A cosa serve e dove la porterà, allora, questa ricerca?
A volte non c’è una ragione precisa per guardarsi indietro e rivivere certi momenti, né una conseguenza di portata cosmica, un coup de théâtre, uno scioglimento risolutivo: si rilegge, si rivede e basta, forse con l’effimera speranza di staccare chi si è perduto dalla pellicola della memoria e riportarlo qui in carne ossa, non per dirgli qualcosa di speciale o domandargli il segreto della vita, ma per il puro gusto di stare insieme e guardare i petali rosa che danzano nel vento, per mostrargli chi siamo diventati, per sussurrare un grazie e un saluto.
A cura di Francesca Mogavero
Anne Enright
è nata a Dublino nel 1962 ed è producer e regista televisiva. Ha pubblicato due raccolte di racconti, un saggio e cinque romanzi, tra cui La veglia, che ha ottenuto i premi “Irish Novel of the Year”, “Irish Fiction Award” e il “Man Booker Prize 2007”. Nel 2015 è stata nominata Laureate for Irish Fiction. Ha pubblicato inoltre: Il piacere di Eliza Lynch, Il valzer dimenticato, Fare figli inciampando nella maternità e La strada verde.
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