Recensione di Francesca Mogavero
Autore: Hannah Tinti
Editore: Nutrimenti
Traduzione: Sandro Ristori
Pagine: 448
Genere: Narrativa
Anno di pubblicazione: 2018
Sinossi. Samuel Hawley: dodici cicatrici, dodici colpi. Ognuno è il ricordo di un proiettile che ha lacerato il suo corpo, ognuno è un segno sulla mappa frastagliata della sua vita. Un altro posto visitato, un errore commesso, l’ennesimo attimo di amore perso o intravisto. Samuel Hawley, criminale, padre di Loo. La loro esistenza randagia si ferma a Olympus, nel Massachusetts. Così potranno smetterla di guardarsi alle spalle, sempre pronti a scappare, dormendo in motel o in macchina, soli, sempre soli. Adesso Loo ha la possibilità di affrontare i normali problemi di una teenager: le difficoltà di inserirsi in una nuova scuola, gli incontri con i ragazzi. Ma il passato di suo padre è un’ombra che oscura tutto, una voragine di segreti e dolore che la vuole inghiottire, come ha fatto con sua madre. E poi, un uomo come Sam Hawley può davvero trovare pace, fare il pescatore come gli altri abitanti della cittadina, andare al pub a bersi una birra e aspettare che il tempo rotoli via? Oppure ci sarà sempre un nuovo proiettile ad aspettarlo alla fine della strada? Un racconto lirico e violento, che sa coniugare le atmosfere del thriller ai temi del romanzo di formazione, l’affetto di un padre alla violenza e al sangue: il ritratto di due personaggi impossibili, eppure così veri. Selezionato tra i migliori libri del 2017 da Washington Post, Npr e Paste Magazine. Opzionato per la televisione americana.
Recensione
Dodici pallottole per dodici storie, che poi è una sola: quella di Samuel e di sua figlia Loo.
A bordo di un furgoncino – o di una familiare o perfino di una spider, a seconda della disponibilità – i due si spostano da un lato all’altro degli Stati Uniti, sempre in viaggio, con la costante sensazione di essere braccati – da chi, la bambina che trasferimento dopo trasferimento diventa giovane donna lo ignora, ma le domande inizieranno a ronzare come mosche attorno a una carcassa e pretenderanno soddisfazione.
Vestiti, peluche vinti alla fiera e amicizie che non hanno ancora avuto occasione di nascere restano ogni volta indietro, alle spalle, oltre la porta chiusa di una stanza di motel, lungo la strada e sotto le ruote; i punti fermi si contano sulle dita di una mano o poco più: i ricordi di Lily, moglie e madre annegata in un lago, la vecchia pelle d’orso, ora coperta, ora fagotto, ora tappeto, un cambio d’abiti, una scatola arancione brillante con una croce rossa (“affinché gli altri possano vivere”), la carta celeste e i ferri del mestiere: “C’era il fucile che il nonno di Loo aveva usato in guerra, pieno di tacche, una per ogni uccisione. […] C’era il fucile a canna liscia calibro venti proveniente da un ranch in Wyoming […] C’era un set di pistole d’argento da duello in un contenitore di legno lucido, vinte a poker in Arizona. La Ruger a canna corta […]. La collezione di Derringer con l’impugnatura di perla […]. E la Colt con il marchio di Hartford, Connecticut, su un lato”.
Oltre a loro due, ovviamente.
Poche parole tra Hawley e Loo, non ce n’è bisogno, come spesso capita tra padri e figlie: non li lega il cordone ombelicale, ma un’empatia più primitiva, che rende ovvia e superflua qualsiasi frase fatta. Loro ci sono l’una per l’altro, possono contare l’uno sull’altra, e questo basta ed è moltissimo.
Come l’animale che un tempo era ricoperto da quella stessa pelle ora stesa in salotto, Loo e Hawley sono orsi: solitari, incompresi, quiescenti ma all’erta in un apparente letargo, anche quando sembrano aver messo radici.
Segreti li uniscono e li dividono, rendendoli estranei, strambi, diversi agli occhi del mondo. Sam quei segreti li sente come macigni, come chiazze di fango su una camicia bianca elegante, e vorrebbe disfarsene una volta per tutte per espiare, andare avanti, indossare un’esistenza nuova, ma soprattutto per garantire una vita sicura, serena e “normale” alla figlia che in un attimo è già adolescente – ribelle, irruenta, esperta di astri, galassie e di armi, sola e innamorata.
Ma se i guai continuano a trovarti e minacciano di travolgere, ancora una volta, chi ami, come si fa a trovare pace e redenzione, o perlomeno una salvezza a lunga scadenza? E chi si è già sporcato le mani (e pure i polsi e i gomiti) è davvero destinato a portare per sempre lo sporco sotto le unghie e tra le impronte digitali, macchiando anche chi gli sta intorno?
La rievocazione delle pallottole che hanno attraversato il corpo di Samuel si incastrano alla perfezione con il percorso di Loo, le sue ricerche, le scoperte, i dubbi. Undici colpi d’arma da fuoco (più uno, quello nodale) e la crescita, dopotutto, non sono esperienze così agli antipodi: entrambe dipingono un unico affresco di sangue e polvere, lasciano cicatrici che a ricordarle si sente ancora il dolore e la nostalgia, pongono le basi per un’epidermide nuova, forse più dura, ma resistente come quella di un orso o di una megattera, che sbattendo la coda può provocare un naufragio, affondare vivi e morti o far emergere una terra sconosciuta e piena di possibilità e di inizi.
Ne Le dodici vite di Samuel Howley Hannah Tinti traccia personaggi e vicende con una penna cruda e poetica allo stesso tempo, e fa sentire l’aridità del deserto e di certi animi oscuri e implacabili, la brezza della baia e le alghe lacustri che avviluppano amori e pensieri, le promesse e le disillusioni americane, ma soprattutto l’affetto assoluto, totale, incondizionato e senza troppi giri di parole tra pianeti in orbita che prima o poi si incrociano, innescando una reazione più potente e duratura di un bengala, del piombo e delle cattive stelle.
A cura di Francesca Mogavero
Hannah Tinti
Hannah Tinti (Boston, 1972) è scrittrice statunitense di successo. Ha pubblicato per Einaudi il romanzo Il buon ladro e la raccolta di racconti Animal Crackers. Il suo secondo romanzo Le dodici vite di Samuel Hawley è stato opzionato per la televisione. I suoi scritti sono stati accolti con favore dalla critica e tradotti in tutto il mondo. Attualmente insegna scrittura creativa alla New York University ed è cofondatrice ed editor della rivista One Story.
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