Recensione di Francesca Mogavero
Autore: Janet Hobhouse
Editore: Neri Pozza
Traduzione: Ada Arduini
Pagine: 400
Genere: Narrativa
Anno di pubblicazione: 2019
«Questo è un libro duro, crudele e bellissimo, il memoriale di un’autentica eroina, la cui lotta contro le calamità che l’assediavano – a cominciare dalle ferite inflitte da un padre gelido e distante e da una madre pateticamente incapace, per finire con il dolore di un matrimonio andato a rotoli, il suicidio della madre e la fatale malattia dell’autrice – fu sostenuta con enorme intelligenza e forza d’animo, e persino con grande stile» (dall’introduzione di Philip Roth).
Sinossi. Pubblicato postumo, Le furie ripercorre una vita vissuta con indomito furore fino alla tragica e prematura morte dell’autrice. Nata e cresciuta in una famiglia di «sirene», in cui ogni membro di sesso femminile sembra essere spuntato per partenogenesi, e in cui gli uomini sono relegati a «semplici, precarie comparse», la protagonista conduce un’esistenza imperniata sul rapporto conflittuale con una madre giovane, bellissima, fragile e amorevole, eppure al contempo malevola, instabile ed egoista. A questo legame indissolubile e tormentato si aggiungono via via altri affetti: quello per la bisnonna Mirabel, detta Angel, la grande nutrice, colei che districava e risolveva ogni problema e che aveva dato il via al matriarcato della famiglia; l’affetto per Emma, la nonna bohémienne, la ribelle fuggita di casa con il suo professore di arte; per la prozia Shrimp, vissuta nel disprezzo di sé e trincerata dietro un’ostinata solitudine e, infine, per la zia Constance, donna dalla bellezza inconsueta, da tutti conosciuta come «la più bella ragazza di New York». Al tempo stesso angeli e gorgoni, le donne protagoniste di queste furibonde pagine si rivelano nella duplice natura di creature dolcissime e crudeli, benevole e sprezzanti: delle vere e proprie furie. Ultimo testamento di Janet Hobhouse, meravigliosamente scritto e ferocemente onesto, Le furie è una potente confessione sulla follia dell’amore e sul vertiginoso caos dell’esistenza.
Recensione
Leggere Janet Hobhouse è angosciante. Doloroso. Soffocante per l’empatia che scatta fin dalle prime righe e ti prende al cuore e alla gola. Vorremmo proteggere Janet, prenderla per mano quando è bambina e scuoterla quando è adolescente e poi donna, dirle che non è colpa sua, che può inspirare aria buona ed espirare i cattivi e tossici pensieri, che la sua scomparsa precoce è una burla e un nuovo finale si può ancora scrivere e sarà una ricompensa.
E leggerla è angoscia e dolore perché, anche se pare un controsenso, un libro ben scritto è così bello da far male, tocca le corde delicate dei sensi (e dell’invidia), ci tuffa in un abisso di sensazioni palpabili, fatte di ipotassi, lessico calzante, rapidi e sempre azzeccati cambi di tempo e di spazio.
Verrebbe quasi da chiedersi – e forse è un’ironia crudele – se queste due angosce (esistenziale ed estetica) siano indissolubilmente legate, se possano sussistere l’una senza l’altra: se Janet-Helen non avesse vissuto ciò che ha vissuto, avrebbe rievocato quegli anni, quelle immagini laceranti, con la stessa bellezza soverchiante, con lo stesso stile? E se il diavolo in persona le avesse promesso una vita serena in cambio dell’anima raccolta nella sua penna, lei avrebbe siglato quel patto col sangue?
Come se il sangue mancasse, ne Le furie. No, non è una scia individuabile a occhio nudo sulla scena di un crimine, ma un fiume carsico che scorre sotto la pelle, che lega, e un poco maledice, tutte le figure femminili della storia, “rami di un albero” sempiterno e dalla corteccia fin troppo dura; è il fluido in cui moriamo e rinasciamo ogni mese, a ogni parto, l’energia di fuoco che anima i sogni e dà senso agli sforzi e ai giorni, lo tsunami che investe lo scoglio del cervello e lo erode di rabbia, di amore, di desiderio, di ribellione.
Helen, Angel, l’estrosa e libera Gogi, le altre donne della famiglia sono tutte asservite a questa forza, ciascuna a proprio modo: la vitalità sanguigna della matriarca, che sgorga copiosa fino a diventare asfissiante, la tempra dell’arte, alla quale immolare figlie e affetti, uno scintillio senza nome, di cui si è inconsapevoli, ma che si nota in mezzo alla folla.
E non mancano nemmeno le Erinni, le Furie, appunto, sebbene non vengano mai evocate esplicitamente: sono divinità arcaiche, più antiche dei nomi stessi, che necessità hanno di una parola che le costringa in una prigione di suoni e di tratti? Eppure il loro morso, che predilige il muscolo cardiaco e avvelena, si fa sentire eccome, tanto quanto la loro natura ambigua, che le trasforma da personificazioni della vendetta senza freni a placide portatrici di bene (e viceversa) in un battito di ciglia.
Ecco, Le furie è un vaso di Pandora di parole cesellate e disposte come perle di un gioiello raro, e ne nasconde infinite altre appena sotto il coperchio, nell’interlinea, nei punti, nei vuoti e sul retro di ogni termine, di ogni singola lettera: perché quando si ha il dono come quello di Janet Hobhouse – e spero che, ora, ne sia consapevole – l’emozione stilla senza strepiti, è trasparente, pura e complice.
E mentre i mali del mondo (e il male di vivere) hanno spiccato il volo come mosche impazzite, arrivando a contaminare anche l’esistenza della scrittrice, la speranza, proprio come nel mito, è rimasta sul fondo e lì giace ancora: non si vede ma c’è… e mi auguro che lei, adesso, sia conscia anche di questo.
A cura di Francesca Mogavero
Janet Hobhouse
Janet Hobhouse (1948 – 1991) è stata una scrittrice, biografa ed editrice americana. Autrice di quattro romanzi, tra cui Le furie, pubblicato postumo, ha esordito con una biografia di Gertrude Stein, Everybody Who was Anybody. È stata redattrice di Art News e ha pubblicato una monografia sulla rappresentazione artistica del nudo femminile nel XX secolo. È morta all’età di 42 anni.