Recensione di Sara Zanferrari
Autore: Delphine De Vigan
Editore: Einaudi
Genere: narrativa
Pagine: 118
Anno di pubblicazione: 25 febbraio 2020
Sinossi. Michka sta perdendo le parole. Proprio lei, che per tutta la vita è stata correttrice di bozze in una grande rivista, lei che al caos del mondo ha sempre opposto una parola gentile, ora non riesce piú a orientarsi nella nebbia di lettere e suoni che si addensa nella sua testa. E cosí adesso Michka vive in una residenza per anziani. A dire il vero, se non fosse stato per quelle parole birichine e qualche trascurabile intoppo nelle attività quotidiane, sarebbe rimasta volentieri nel suo accogliente appartamento parigino. Ma è meglio cosí: qui riceve assistenza continua, e poi non voleva che Marie, l’ex vicina a cui ha fatto da seconda madre, si preoccupasse tanto per lei. E allora biscottini, sonnellini, uscitine, passettini: Michka si piega, con una certa riluttanza, al ritmo fiacco delle giornate «da vecchia», alle stravaganze degli altri «resistenti», ai sogni infestati dalla temibile direttrice. Confinata nella sua stanzetta asettica, sempre piú fragile e indifesa, a Michka non resta che consolarsi con le visite di Marie e le chiacchierate con Jérôme, il giovane ortofonista che lavora nella casa di riposo. Il ragazzo, infatti, ha ceduto presto alla tenera civetteria della sua paziente discola – gli esercizi per il linguaggio «la sfioriscono» -, che vuole solo raccontare e farsi raccontare. A poco a poco, però, le parole si fanno piú rare, barcollanti, e, anche se non ha perso il senso dell’umorismo, Michka è consapevole di non poter deviare l’inesorabile corso degli eventi. Ed è proprio per questo che vorrebbe realizzare un ultimo, importante desiderio: ringraziare la famiglia che l’accolse durante la guerra e che di fatto le salvò la vita. Saranno Marie e Jérôme ad aiutarla, perché anche loro conoscono il valore inestimabile di un semplice «gratis», come direbbe Michka. Dopo Le fedeltà invisibili, Delphine de Vigan prosegue il suo viaggio al cuore dei sentimenti, regalandoci un intenso romanzo a piú voci, scritto con quella grazia e quella delicatezza capaci di toccare le corde piú profonde del cuore.
Recensione
Un libro delicato, struggente, condensato, che si legge d’un fiato, così come il precedente “Le fedeltà invisibili”: vieni rapito dai personaggi e non ti puoi staccare finché non hai letto l’ultima pagina, per poi ritrovarli dentro di te ancora per lungo tempo. E la scrittura rarefatta della De Vigan, a cui bastano poche pennellate per dire tutto. La protagonista vista dagli altri due personaggi, raccontata attraverso brevi ma significativi dialoghi, di una poesia e malinconia senza eguali.
Michka sta invecchiando e invecchiando sta perdendo le parole, proprio lei che faceva la correttrice di bozze per lavoro. In realtà non le perde propriamente: le sostituisce con altre. E chi la conosce sa seguirla nei suoi discorsi di parole sbagliate. Sono Marie, la bambina sola cresciuta da lei come una figlia, e Jerome, l’ortofonista che le si affeziona praticamente subito; sono le uniche due persone presenti nella sua vita, che la scandiscono con le loro visite, una volta entrata in casa di riposo, a saperla seguire nei suoi discorsi. Discorsi che sono un rincorrere le memorie, le sue e quelle dei suoi amici, le memorie dell’infanzia, le memorie dei propri genitori o di chi si è preso (o non preso) cura di noi.
In casa di riposo, la vitalità che l’aveva contraddistinta comincia ancora più velocemente a sfilarsi dalle sue mani, e quando Marie è impossibilitata a visitarla per diverso tempo, il suo tempo sulla terra prende un’accelerata fatale. Mitchka non ha più tanta voglia di vivere, ma ha un desiderio fortissimo: ringraziare la famiglia a cui sua madre l’aveva affidata, che l’ha accolta e cresciuta durante la guerra, salvandole la vita.
Amore, accettazione, gratitudine, nostalgia: questi i sentimenti e le emozioni delicate e comunque sempre positive, che risaltano poco a poco in questo breve romanzo. E la malinconia, che sottilmente si impadronisce dei lettori, come l’atmosfera di quel luogo dove le persone anziane vanno a terminare i propri giorni, senza giudizi, senza troppi rimpianti, ma più una consapevolezza di come la vita sia spesso dolorosa, ma anche piena di possibilità.
E poi c’è l’amore, sempre lui, lui che salva tutto e tutti. Amore che non richiede necessariamente legami di sangue per rinnovarsi e crescere, amore che sa dare un volto e un nome anche a una bambina che bussa alla porta in cerca di cura, o a un giovane tecnico che ha il proprio vissuto da “digerire” e trova inaspettata gioia nel condividere pensieri e ricordi con l’anziana ospite, che gli fa sempre tante domande. Amore nelle piccole cose, amore in quelle grandi, nei grandi gesti, tuttavia tenuti nascosti, per raccontarli solo a chi ci sa “riconoscere” e comprendere:
“Mi è piaciuta subito. L ’ho riconosciuta, sí, è la parola giusta. Ho pensato: prendo tutto. Il sorriso, la tristezza, gli occhi cerchiati. La bambina senza cappotto ai giardinetti…..” (pag. 109 ,
così dice Jerome di Mitchka.
Ed è sempre lui, ad un certo punto, a spiegare, in un certo senso, l’essenza del nostro essere umani, del nostro rimanere sempre, interiormente, bambini, a portarci dietro indelebili le cicatrici dell’infanzia:
“Guardo i miei vecchi hanno settanta, ottanta, novant’anni, mi raccontano ricordi lontani, mi parlano di tempi remoti, tempi ancestrali, preistorici, i loro genitori sono morti da quindici, venti, trent’anni, ma il dolore del bambino che sono stati è sempre lì intatto. Glielo si legge in faccia e glielo si sente nella voce, vedo ad occhio nudo che gli pulsa nel corpo, nelle vene” (pag. 77).
E’ qui che ho ritrovato, riassunto in poche righe, lo stesso dolore di bambina/o che permea tutto il precedente romanzo “Le fedeltà invisibili”. Ancora una volta De Vigan indaga su questo tema, stavolta in maniera più sottile e apparentemente a latere della storia, ma invece, inesorabilmente, è il filo su cui si intessono le vite umane fino al loro spezzarsi.
Nuovamente è la cura di persone non legate da parentela, ma da sincero amore quella che può (o, nel romanzo precedente, non riesce) a salvarci la vita.
A cura di Sara Zanferrari
Delphine De Vigan
Delphine De Vigan (classe 1966) è una scrittrice francese autrice di sette romanzi. Madre di due bambini e scrittrice a tempo pieno dal 2007. Il suo primo romanzo, Giorni senza fame è stato pubblicato nel 2001 dalle edizioni Grasset sotto lo pseudonimo di Lou Delvig: si tratta di un romanzo autobiografico sulla battaglia e la guarigione di un’anoressica di 19 anni. Ha pubblicato in seguito, nel 2005, col suo nome Les jolis garçons, breve romanzo (150 pagine) costituito dalle tre storie di una giovane donna, Emma. Poi, scavando nel tema delle difficoltà amorose e della memoria, ha pubblicato nel 2006 “Una sera di dicembre”, che ha ottenuto il Prix littéraire Saint-Valentin nel 2006.
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