Recensione di Francesca Mogavero
Autore: Daša Drndić
Traduzione: Ljiljana Avirović
Editore: La nave di Teseo
Pagine: 419
Genere: Narrativa
Anno di pubblicazione: 2019
Sinossi. Dall’autrice di Trieste – tradotto in numerose lingue e divenuto un caso internazionale – un romanzo luminoso e caleidoscopico, che compone, come in un collage mozzafiato, fatti realmente accaduti e storie di pura invenzione, parole e immagini. In un continuo sovrapporsi di istantanee, Leica format ci conduce nei mondi percorsi dai suoi protagonisti, a volte destinati a incrociarsi, a volte invece costretti a rimanere solo prossimi: una pianista che ha perso la memoria incontra uno sconosciuto che le rivela che la sua identità è soltanto una menzogna; un ospedale austriaco che conserva ancora segretamente gli esperimenti di eugenetica condotti sotto al Nazismo; una viaggiatrice che arriva in una cittadina e si avvicina, inconsapevolmente, al suo passato; un uomo sordo che sembra essere al centro di un’opera di Beckett.Tra Fiume, Vienna, gli anni dell’Olocausto e quelli della fine della Jugoslavia, Daša Drndić ci fa dono di un’opera poetica ed errante, che – come la sua pagina, graficamente mossa, vitale – accende la narrazione di salti e fughe, di segreti nascosti nel cuore di altri, oscillando tra i temi della memoria e della perdita, prendendo in prestito qualcosa da ogni grande tradizione letteraria (da Pessoa a Calvino, da Sebald a Eliot, da Bernhard a Baudelaire), per tessere un racconto sull’amore e sull’inesausta indagine della vita e della Storia, fra le domande più difficili da porsi e le risposte impossibili da trovare.
Recensione
Un romanzo, un saggio, un metatesto, una lista di errori della Storia, un conto (sempre in rosso) dei costi umani?
Forse, come suggerisce il titolo, il nuovo libro di Daša Drndić è un album di fotografie: istantanee di vita e vite scattate di getto, per caso, in uno studio professionale o per le strade, sotto la luce giusta, con il sole di fronte o nell’oscurità totale, per testimoniare, raccontare, salvare, ricordare e immortalare. Immagini a colori o in seppia, primi piani o campi lunghi, in fase di sviluppo o già coperte dalla patina del tempo, appiccicate sul frigo di una cucina “tecnica bianca” o chiuse in un fascicolo in attesa del momento giusto.
Di sicuro, ognuna è diversa dall’altra. Non solo per le condizioni, la qualità della pellicola e il momento, ma soprattutto perché, ed è evidente, è impensabile realizzare due foto (o due testi) identiche in ogni pixel.
Così, Leica format si presenta, in apparenza, come un insieme di figure, di quadri, di racconti slegati, come se qualcuno li avesse raccolti in un unico plico, ma senza dar loro un ordine o una classificazione. Ma c’è un “ma”: i testi (o le fotografie, se vogliamo continuare con questa metafora) sono unici e irripetibili, ma scattati (scritti e narrati) dalla stessa mano. La mano dell’autrice, che tra le pagine assume ora il ruolo di demiurgo ora quello di confessore, di testimone, di medico, paziente, rullino e carta.
Ed è questo a fare dell’opera qualcosa di intimamente organico, in cui ciascuna riga è legata in modo sottile a quelle che seguiranno, e nulla è inserito per caso: i personaggi ritornano dopo essere spariti, partiti, sepolti, come epidemie che si ripropongono, più virulente ed energiche che mai, ogni volta nel pieno delle forze e golose di carne, a intervalli quasi regolari; le città risorgono dalle loro macerie e accolgono gli stessi passi; la follia umana, anche quando è esercitata (e subita) in nome della scienza, non ha limiti e le lezioni dei secoli tendono a essere dimenticate e le colpe ripetute, sebbene lasciando un margine di creatività.
Ecco dunque che nel libro tornano i concetti di “mortitudine” e di “fuga” in tutte le loro accezioni, dalla mortalità biologica a quella urbana, dalla linea impolverata tra le piastrelle al viaggio alla ricerca di sé o di un futuro migliore; svaniscono e ricompaiono madri, antenati e amanti, ora giovani e belli, ora devastati dalle malattie e dal vortice della Storia; si replicano e moltiplicano casi di sifilide ed esperimenti crudeli su innocenti ed emarginati.
In fondo, ogni Io è una città di strade/vasi sanguigni e “la città è un grande Io”, con un unico spirito di sopravvivenza e un solo cervello (a volte bruciato o sotto formaldeide): tutti in fondo ci siamo già incontrati, ci conosciamo o ci sfioriamo, abbiamo occupato gli stessi spazi e condiviso le stesse esperienze, ma lo ignoriamo o abbiamo smesso di saperlo, le lingue e la politica alzano barriere insensate, e ciò ci rende uguali, pari in una grande solitudine… Ciascuno chiuso nel perimetro della propria fotografia, quando invece potremmo comporre un gigantesco paesaggio universale senza limiti.
Leica format è un viaggio alienante nelle miserie umane, nelle strade del mondo, nei labirinti di menti confuse, negli stili e nelle potenzialità della parola… e quando si riemerge dalla lettura nulla è più come prima.
A cura di Francesca Mogavero
Daša Drndić
Daša Drndić (1946-2018) è stata una delle più voci più autorevoli della letteratura croata contemporanea. Laureata all’Università di Belgrado in Lingua e letteratura inglese, ha continuato gli studi in Teatro e comunicazione negli Stati Uniti, conseguendo il dottorato con una ricerca su Sinistra e proto-femminismo presso la Facoltà di Discipline umanistiche e scienze sociali all’Università di Fiume (Rijeka), dove ha poi insegnato. Ha scritto una trentina di sceneggiati radiofonici e ha pubblicato prose e poesie. È autrice di romanzi tradotti in inglese, francese, polacco, sloveno, tedesco, slovacco, tra cui Trieste, 8.000 copie vendute solo in Italia, ed è stato candidato all’Independent Foreign Fiction Prize.