L’immensa distrazione




MARCELLO FOIS


Sinossi. «Ettore Manfredini, nonostante fosse appena morto, la mattina del 21 febbraio 2017 ebbe la netta sensazione di svegliarsi». Inizia così il nuovo libro di Marcello Fois, che torna al grande romanzo familiare, questa volta in un’Emilia mitica e concretissima, fatta di campi, allevamenti, industrie, infinite pianure. Per un istante lungo quasi trecento pagine, Ettore ripercorre i momenti decisivi, le grandi gioie e i grandi dolori della sua stirpe. E finalmente vede tutti come sono stati davvero. I Manfredini hanno trasformato un semplice mattatoio in un impero, con l’accanimento di chi conosce la miseria e l’astuzia di chi ha capito come uscirne. Ma ogni cosa che li riguarda, il loro inesausto gioco di sentimenti, alleanze, silenzi e potere, si fonda su un inganno. Sono questo, i Manfredini: spietati, umanissimi. Venite a conoscerli.

È un’alba uguale a tutte le altre, soltanto un po’ più lunga, quella in cui Ettore Manfredini si sveglia appena morto nella casa accanto al macello che è stato il centro della sua vita e di cui conosce ogni lamento, ogni cigolio. Nato troppo povero per permettersi un’istruzione regolare, impiegato da ragazzo nel mattatoio kosher di cui si impadronirà dopo le leggi razziali, Ettore è un uomo destinato al successo: diventerà uno dei più grandi imprenditori dell’Emilia in bilico tra grande industria e tradizioni contadine. E in quest’alba livida del 21 febbraio 2017, arrivato alla resa dei conti, Ettore capisce di dover percorrere fino in fondo il corridoio dei suoi ricordi. Parte da qui la vorticosa storia della famiglia Manfredini. Che è in primo luogo la storia di Ettore, ma anche di sua madre Elda, sulla cui spregiudicata opacità si fonda tutta la loro fortuna, e di sua moglie Marida, salvata dalla deportazione ma a carissimo prezzo, e di Carlo, il primogenito, figlio mai del tutto capito, e di Enrica, la vera mente dietro la crescita dell’Azienda, e di Elio, il nipotino amatissimo, e di Ester che rimane invischiata nella lotta armata, di Edvige, di Lucia… Il nuovo romanzo di Marcello Fois è una straordinaria macchina della memoria, in cui il grande disegno della Storia si mescola a piccoli dettagli fondamentali: il sapore di una ciambella mangiata ottant’anni prima, la serranda perennemente guasta nella casa di famiglia, due vecchie poltrone su cui si sono decisi i destini di tutti loro. E poi la foto di due gemelli ad Auschwitz trovata per caso in un’enciclopedia. Dipingendo l’affresco di una dinastia del Novecento fondata sulla carne e sulla menzogna, Marcello Fois ci regala un romanzo semplicemente maestoso. Perché vivere, forse, non è nient’altro che un’immensa distrazione dal morire.


Editore: Einaudi

Collana: Supercoralli

Pagine: 288 p., Rilegato

Anno edizione: 2025

 Recensione

di

Sabrina De Bastiani


Nonostante avesse vissuto quasi cent’anni, gli parve di aver affrontato una vita brevissima, che solo ora, in quell’intermittenza che lo separava dall’incerto definitivo, si sentiva in grado di affrontare.

Immaginiamo un istante in cui, subito dopo la morte, tutto si fermi e tutto si illumini. 

È lì, in quel preciso istante, che Marcello Fois colloca Ettore Manfredini, il protagonista de L’immensa distrazione. 

Nei libri si poteva ipotizzare, ed era stato fatto, che tra vita e morte ci fosse una terra di nessuno in cui adattarsi al passaggio tra uno stato e l’altro.

Non un aldilà consolatorio né un tunnel verso una luce bianca, ma un tempo sospeso, abbastanza determinato a spingere l’uomo a guardare la propria vita con occhi che non ammettono scuse.

La sua vita gli apparve improvvisamente come un materiale viscoso e granuloso che stesse passando attraverso un setaccio finissimo. Ma questa nuova consapevolezza che si faceva strada dentro di lui non aveva niente a che fare con i bilanci o cose simili: si manifestò piuttosto nella tranquillità di accettare la moltitudine di errori che, in quella breve stagione che era stata la sua esistenza mortale, aveva commesso.

Ci sono romanzi che parlano a voce alta e altri che, come questo, che sussurrano in profondità non concedendo scappatoie, mettendo  il lettore davanti alla verità più elementare e insieme più elusiva:  vivere è in fondo un modo per rimandare la morte. 

Ma Fois non lo racconta come una condanna, bensì come una possibilità.

Il romanzo è, prima di tutto, un processo interiore. Ettore non è l’eroe tragico che riscatta i suoi errori all’ultimo minuto, ma un uomo qualunque che si accorge di essere stato parte della dispersione del vivere quotidiano, della frenesia che  impedisce di fermarsi a guardare davvero, della tentazione di nascondere le ferite e non affrontare il dolore, di una “distrazione collettiva”, insomma,  verso la  vita vista come diversivo, come rincorsa  per non pensare all’unica certezza,  la sua fine. 

Fois, penna illuminata,  dispiega il suo narrato con una prosa tesa e insieme compassionevole, con una lingua ricca, precisa, mai compiaciuta, capace di dare densità storica,  la grande Storia entra sempre di taglio, filtrata dai corpi, dalle scelte e dalle omissioni dei Manfredini, senza trasformare il libro in un trattato. 

Non ‘solo’  il racconto di una famiglia, ma  un’anatomia dell’illusione che scarnifica silenzi, compromessi, ambiguità. 

Il protagonista, Ettore,  non ha  risposte chiare, ma  ha imparato a reggere le domande difficili, perfino quelle che camminano con “le scarpe in prestito” dell’infanzia. 

Ed è qui che torna alla mente Martin Heidegger nel suo  L’origine dell’opera d’arte, laddove descrive il celebre dipinto di Van Gogh con le scarpe da contadino e non vede soltanto un paio di calzature consumate, ma l’intero mondo di chi le ha indossate, la fatica, la terra, il sudore, la vita quotidiana. Allo stesso modo, Fois, nel raccontare Ettore e la sua famiglia, non rappresenta semplicemente esistenze individuali, ma apre, attraverso di esse, un universo intero di  generazioni, con i suoi compromessi, le sue cecità, i suoi silenzi. 

È il potere dell’arte, non riprodurre, ma rivelare.

Ed è la letteratura, ancora una volta, a diventare il contrappunto decisivo. Perché nei libri si possono vivere mille vite, assumere mille identità, provare la neve russa anche senza aver mai lasciato la propria città. 

Ettore capí di non aver mai visto veramente la neve se non dopo aver letto i romanzi russi. Di nevicate ne aveva viste, alcune anche eccezionali come quella del 1956, ma il punto era che nessuno dei Karamanzov, quella nevicata là, avrebbe potuto definirla eccezionale.  

La pagina diventa così il luogo in cui riconoscere il proprio destino riflesso negli altri: nelle scarpe di Charles Bovary,- E scoprí che leggere degli altri significava leggere di sé, perché Charles Bovary, che «portava scarpe robuste, malamente lustrate, fornite di chiodi», era il bambino per cui avevano chiesto in prestito le tremende calzature – nei bambini spietati di Golding,  – Non aveva  mai colto il nocciolo della sua inimicizia con Carlo fino a quando non si imbatté nel Signore delle mosche, che raccontava quanto può essere intransigente la dittatura dei bambini.

Leggere degli altri significa leggere di sé. Un atto di verità che nessuna “distrazione” può  offuscare.

Vivere è un’immensa distrazione dal morire. E perciò un sacco di tempo lo si spende a fare, pensare, agire, cose indifferenti. Cosí può accadere che non si ami abbastanza, né si odi abbastanza. Può capitare persino di investire un’immensità di energie a trovare soluzioni inutili per problemi inutili, scrive Fois.

Eppure  dentro quella distrazione non c’è solo dispersione. C’è  la misura esatta della nostra umanità, con la sua fatica, la sua bellezza e i suoi errori. 

Alla fine, Ettore guarda indietro e scopre che una vita intera può sembrare brevissima, ma che in quella brevità si può comunque imparare l’arte più difficile.

Accettarsi.

Romanzo lucido e toccante, L’immensa distrazione è una meditazione sulla fragilità che ci unisce e sulla possibilità che la letteratura ci offre, di trovare, tra le righe di altri, il coraggio di guardare in faccia la nostra stessa vita.

Di potenza rara la doppia voce che ascoltiamo in queste pagine.

Quella epica, che abbraccia decenni e generazioni, e quella intimistica, che scava nei pensieri di un uomo cristallizzato nel suo ultimo respiro. 

Il risultato è un libro che parla della morte ma, paradossalmente, libera la vita.

Da ogni autoinganno.

C’era la letteratura, si disse. Che era uno spazio di ipotesi diversamente attendibili, spesso opinabili, ma anche un territorio su cui coltivare possibilità. (…) Nei libri si poteva affermare di essere vecchi pur non essendolo; di essere uomini o donne o bambini pur non essendolo; di essere Dio pur non essendolo. (…) 

Certo, nei libri non poteva esserci nemmeno  un millesimo di quello che la realtà riservava, ma allo stesso tempo in ogni buon libro c’era qualche esperienza indispensabile per capire, o accettare, o analizzare, la propria vita. 

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Marcello Fois


scrittore, vive a Bologna da molti anni. Laureato in Italianistica, è un autore prolifico, non solo in ambito letterario, ma anche nel campo teatrale, radiofonico e della fiction televisiva. Esordisce nel 1992 con il romanzo Picta, vincitore del Premio Italo Calvino, e Ferro recente. A questi sono seguiti numerosi altri libri (e altri premi), tra cui Nulla (Il Maestrale, 1997, Premio Dessì), Sempre caro (Il Maestrale – Frassinelli 1998, Premio Scerbanenco-Noir in festival e Premio Zerilli-Marimò, poi ripubblicato da Einaudi nel 2009), Gap (Frassinelli, 1999), Sangue dal cielo (Il Maestrale – Frassinelli, 1999), Dura madre (Einaudi, 2001), Piccole storie nere (Einaudi, 2002), L’altro mondo (Frassinelli-Il Maestrale, 2002), Materiali (Il Maestrale, 2002), Tamburini (Il Maestrale, 2004), Memoria del vuoto (Einaudi, 2007, Premio Super Grinzane Cavour, premio Volponi e premio Alassio), Stirpe (Einaudi, 2009), Nel tempo di mezzo (Einaudi 2012, finalista al Premio Strega e al Premio Campiello), L’importanza dei luoghi comuni (Einaudi 2013), Luce perfetta (Einaudi 2015), Quasi Grazia (Einaudi 2016), Del dirsi addio (Einaudi 2017). Del 2006 è la raccolta di poesie L’ultima volta che sono rinato. Nel 2014 esce per Rizzoli I semi del male, scritto con Carlo Bonini, Sandrone Dazieri, Giancarlo De Cataldo, Bruno Morchio ed Enrico Pandiani.
Come sceneggiatore ha lavorato alle serie televisive Distretto di polizia e Crimini, e ad alcuni film, tra cui ricordiamo Ilaria Alpi (regia di Ferdinando Vicentini Orgnani, 2003), Certi bambini (regia di Andrea e Antonio Frazzi dal romanzo di Diego De Silva, 2003) e L’ultima frontiera (regia di Franco Bernini, 2006). Con Giulio Angioni e Giorgio Todde è fra i fondatori del festival letterario L’isola delle storie di Gavoi.