Lo Stemma




 LO STEMMA

di Fulvio Abbate

La nave di Teseo 2023

narrativa, pag.464

Sinossi. Palermo, 2023. Costanza Redondo di Cosseria, principessa sontuosamente mediocre, è oggetto di misteriosi messaggi che compaiono sui muri della città e ne mettono in discussione la moralità. Decide allora di cercare gli autori delle meschine offese, accompagnata da personalità cittadine altrettanto modeste, eppure certe di brillare come lei in un malinteso ombelico del mondo. Tra loro, Vittoria, stentata dama letteraria, intenta a compilare un seguito del Gattopardo; un monsignore aspirante artista d’avanguardia in cerca di uno scolaro scomparso; Blanche, fanciulla in fiore francese, che sembra ritrovare in Sicilia il proprio zenit erotico; Duilio Vitanza, usciere regionale nonché “santone” dell’occulto; Penny Capizzi, mafiosa a suo modo femminista. Finché nella vita di Costanza non entra prepotentemente l’inenarrabile commerciante di moquette Brando Sucato. Unica voce critica, Carlo, barone e cugino di Costanza, che prova a restituire coscienza all’intero racconto. Una storia di vizi barocchi irrefrenabili e desideri mai repressi, la Sicilia come specchio dei nostri peggiori difetti e delle nostre migliori ambizioni.

 Recensione di Francesca Mogavero

Che cos’è lo stemma?

Un residuato, il ricordo stuccato alla bell’e meglio di un passato remoto tutto pizzi e Florio, una bolla papale, anzi sociale, social, che dice al mondo chi sei per il tempo di una storia su Instagram, una cosa tinta da commissionare a un negozio di targhe, tanto per vedere l’effetto che fa sentirsi nobili – nobilmente mediocri?

[…] ad alcuni, in grado di penetrare la storia umana fin nel suo profondo, sembrava che l’insulso in Sicilia assumesse tratti di concreto e sentito araldico orgoglio”: ed ecco, allora, che è proprio la mediocrità a farsi blasone, spirito del tempo e genius loci, stemma, appunto, di chi a quella mediocrità già appartiene o di chi vi aspira, stigma e sciabola per chi, al contrario, prova a levarsi a voce critica.

Principesse del coito orale, scribacchine da brochure, cercatrici di piacere (puntualmente nel posto sbagliato), e poi “santoni” da portineria, devoti alla piccola Rosalia Lombardo, eterna mummia di due anni, defunti cocainomani (della serie: “polvere sei…”), cicisbei e portaborse, amichetti e amiconi, pizzerie mutaforma, mafia da sottoscala, l’arte da bere e la moda da fagocitare: c’è un crogiuolo in questo libro, che è “un diorama universale”, un tourbillon di trame e sottotrame, biografie, spigolature ed eco cinematografiche. Perché alla fine non si arriva veramente mai, e ogni nome ne chiama un altro, in un gioco senza freni.

Da Franco Franchi a Édith Piaf, dai Beati Paoli a Sciascia, tutto passa sotto gli occhi languidi e vacui della Palermo di oggi, la “tutta porto” dalle gambe (e la testa), però, più serrate delle gabbie dell’Ucciardone, perché “Palermo è un luogo da pensare unicamente al passato, come pagina letteraria, narrativa, assente a ogni possibile estensione o volo nel futuro, unicamente ordinario quotidiano”: il capoluogo è un’immaginetta da comò, una bella foto sottoposta a iniezioni di filtri, presa a colpi di scimitarra mediatica.

C’è da pensare che Abbate, Palermo, la detesti. Ma basta andare appena sotto la superficie, assieme alle mante e a Cariddi, per capire che il suo sentimento è del tutto opposto. That’s love!

Se a chi scrive è consentito uscire dal registro, quanto più oggettivo possibile, della “recensione” – che tono altisonante! – e rientrare nell’Io, vestendo in particolare i panni di chi ha origini madonite, è possibile avvertire tra le pagine de Lo Stemma la medesima nostalgia dell’esule e dell’apolide, anzi, di chi quei luoghi li ha accarezzati solo con la memoria altrui: è il dolore del ritorno – mai del tutto realizzato, mai veramente considerato (penso che a Roma, Abbate, ci stia bene e pure io, “su al Nord”, speriamo che me la cavo) – a una terra non solo lontana nello spazio, ma addirittura nel tempo e nell’immaginario, evanescente, onirica, cantata, e fa male vedere che di quella città ora barocca ora araba, ora normanna ora chissà cos’altro (basta girare un angolo, se si sopravvive al traffico), son rimasti solo le facciate e i luoghi comuni, ché tutto il resto è aridità globale.

Che fare, allora?

Fustigare e maledire la modernità e i costumi? Oppure farsi stiliti e sorridere dall’alto?
O, ancora, osservare, annotare in silenzio e prendere una decisione netta, senza possibilità di ritorno né di replica?

Come recita l’aletta, Fulvio Abbate, con maestria e una penna letteraria, disincantata e ironica, amabilmente sconfinando nella farsa, mette in scena “una Sicilia come specchio dei nostri peggiori difetti e delle nostre migliori ambizioni”, e per me – eccolo là, di nuovo, l’Io! – fa centro, perché le lacune umane le vedo e le conto tutte nel mio riflesso, me ne assumo la responsabilità e mi sento pure un po’ in colpa… ma anche speranzosa: vien voglia di lavorare su di sé, di puntare a nuovi obiettivi, con una mano carezzando un cirneco dell’Etna e con l’altra indicando la cima del vulcano e poi le stelle.

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Fulvio Abbate


è nato a Palermo nel 1956, e vive a Roma. Ha pubblicato i romanzi Zero maggio a Palermo (1990-2004-2017), Oggi è un secolo (1992), Dopo l’estate (1995), La peste bis (1997), Teledurruti (2002), Quando è la rivoluzione (2008), Intanto anche dicembre è passato (2013), La peste nuova (2020). E ancora, tra l’altro, Il ministro anarchico (2004), Sul conformismo di sinistra (2005), Roma vista controvento (2015), LOve. Discorso generale sull’amore (2018), Quando c’era Pasolini (2022), Gauche caviar, con Bobo Craxi, (2022). Nel 2022, in Francia, è stato nominato Officier de l’Ordre des Arts et des lettres.

A cura di Francesca Mogavero

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