Recensione di Max Morini
Autore: Luca Crovi
Editore: Rizzoli
Collana: Nero Rizzoli
Pagine: 201
Anno pubblicazione: 2018
Sinossi. C’era una volta la Milano della “ligéra”, la città popolata dai contrabbandieri, dai maestri del borseggio e dagli artisti dello scasso: balordi intenti in malefatte più che in misfatti, persi nell’eterno “guardie e ladri” con i “ghisa” e la “madama”. Corre l’anno 1928 e da Roma Benito Mussolini, duce del fascismo, dichiara guerra ai duri meneghini. Intanto, nella regia questura in piazza San Fedele è di stanza un poliziotto che legge Platone e va pazzo per la cassoeula. Lo chiamano il “poeta del crimine”. Nelle spire della scighera, la spessa bruma che punge i visi e gela i cuori, torna il commissario Carlo De Vincenzi, già protagonista dei gialli di culto firmati, a cavallo tra i Trenta e i Quaranta, dallo scrittore Augusto De Angelis. Al poliziotto tocca fare i conti con l’anima più profonda della Capitale morale: quella che trema ai boati di bombe attribuite agli anarchici e sogna dietro alle magie del suo Peppìn, l’eroe dell’Ambrosiana, registrato all’anagrafe col nome di Meazza Giuseppe. Sarà il commissario a svelare i misteri che aleggiano intorno alla vita del campione, mentre dovrà vedersela con i piccoli, grandi enigmi di una malavita stracotta come la busecca e romantica come un riflesso al tramonto sull’acqua dei Navigli.
Recensione
La Milano raccontata da Luca Crovi ne “L’ombra del campione”, non è certo una “Milano da bere”, ma casomai, piuttosto, “da mangiare”: i piatti della tradizione popolare meneghina, cucinati sapientemente da portinaie che avrebbero vinto a mani basse “Master Chef”, dalle pagine del libro non fanno fatica a prendere forma nell’immaginazione e, probabilmente, anche nel palato del lettore.
Soprattuto la “torta di michelach”, la “cassoeula” e la “busecca”, sublime trippa per cui impazzisce Carlo De Vincenzi, commissario coltissimo che legge Platone, uno dei primi se non il primo eroe-antieroe della nostra letteratura poliziesca, creatura dello scrittore Aurelio De Angelis, interpretato da Paolo Stoppa in una bella trasposizione Rai negli anni Settanta e infine “riesumato” letterariamente in recenti riedizioni Sellerio.
De Angelis fu a lungo osteggiato dal fascismo e per questo non ebbe in vita il successo che meritava: scrivere gialli era poco autarchico e troppo anglossasone e di omicidi e crimini italici era meglio non parlare.
Far rivivere il suo De Vincenzi è già un merito del romanzo; l’altro è sicuramente quello di farlo incontrare (siamo nel 1928, in pieno regime) con un altro eroe meneghino, ma questa volta di geste pedatorie: il grandissimo Giuseppe Meazza, uno dei primi divi del nostro calcio, fenomenale centravanti-mezzala a cui è intitolato lo stadio di San Siro, che militò prima nell’Inter e poi anche nel Milan e vinse due mondiali con la Nazionale di Vittorio Pozzo.
Il “Peppin”, detto anche “el Balilla” per la giovanissima età, diciassette anni, in cui debuttò nell’ Inter (ribattezzata in quegli anni italianamente e autarchicamente “Ambrosiana”) spesso si allena da solo davanti al carcere da San Vittore e riceve da anni delle misteriose buste nero-azzurre, accompagnate da “regali” di varia natura: al Commissario De Vincenzi il compito di scoprire il perchè.
Con il suo stile, ovviamente: De Vincenzi è un detective che non segue la prassi deduttiva ma piuttosto quella intuitiva-psicologica, e in questo è una specie di Maigret italiano ante-litteram piuttosto che un epigono di Philo Vance o Ellery Queen, geni investigativi che negli stessi anni spopolano al di là dell’Atlantico.
Si appassiona all’ umanità dei personaggi che incontra sulla sua strada e a quella degli indiziati, seguendo le tracce della loro storia in città, la Milano degli anni Venti che porta con sè i ricordi del tempo che fu: il dialetto stretto, i quartieri dove si produce formaggio e quelli della mala, la mitica “ligera”, eppoi il Cavaliere Nero, sorta di Fantomas dell’epoca, un servizio funerario tramviario chiamato “La Gioconda” e la scia rossa che firma gli attentati anarchici, compreso quello alla Fiera di in presenza del re. Oltre ai gol di Peppin, naturalmente.
Su tutto e su tutti domina la co-protagonista del romanzo, la “scighera”, la nebbia cittadina che rimane in bocca ai personaggi come il sapore dei piatti della “sciura” Maria Ballerini, la portinaia amica di De Vincenzi.
Crovi, redattore della Bonelli, critico e specialista di giallistica e storia del poliziesco, alla sua prima prova narrativa crea una vicenda dove si diverte a mescolare molti ingredienti della memoria cittadina e di quella personale.
Ma, come in una ricetta che si sperimenta per la prima volta, manca ancora l’amalgama giusto e la linea poliziesca fa fatica ad emergere da citazioni, flash-back e micro-storie all’interno del racconto principale, che a volte rimangono sovrapposte in maniera didascalica, come quella del San Vittore che dà il nome al carcere cittadino, o forzata, come un improvvisa apparizione in città del celebre chitarrista classico Andres Segovia.
Però l’impresa è piacevole e si legge velocemente, complice uno stile diretto, lineare, privo di fronzoli, con bei dialoghi, ritmo interno e quadri narrativi quasi cinematografici.
Chiudendo le pagine de “L’ombra del campione” rimane soprattutto il sapore di una grande passione per la propria città e, ovviamente, per il poliziesco: per questo la prossima storia di De Vincenzi a cui Crovi dice di stare già lavorando sarà sicuramente una “busecca” ancora migliore.