Recensione dell’autore Fabio Girelli
Autore: Philip Roth
Traduttore: V. Mantovani
Editore: Einaudi
Collana: L’Arcipelago Einaudi
Genere: narrativa
Pagine: 82
Anno pubblicazione: 2006
Cosa si può dire di Philip Roth che non sia già stato detto?
Cosa si può aggiungere ai fiumi di inchiostro ben più autorevoli del mio che già sono stati versati per analizzare l’opera di uno scrittore eternamente candidato al Nobel, il terzo scrittore statunitense che ha ricevuto l’onore di vedere pubblicata in vita la sua opera completa dalla Library of America? Uno che ha vinto il Pulitzer per la narrativa? Uno che sta a me come Picasso sta al mio imbianchino (molto bravo ed economico, peraltro)? Quando mi è stato domandato di recensire L’orgia di Praga ho iniziato a farmi queste e altre domande, piuttosto simili. Tanto più che si trattava di un romanzo uscito nel 1985, su cui era già stata versata la melassa di qualunque adulazione o la pece di ogni possibile critica. Tanto più ancora che stavamo parlando di una storia che idealmente è l’epilogo la trilogia di Zuckerman, l’alter ego letterario di Roth, già incontrato ne Lo scrittore fantasma (1979), Zuckerman scatenato (1981) e La lezione di anatomia (1983). Per cui oltre alla sproporzione tra il recensore e il recensito, che già mi dava grattacapi, si aggiungeva pure la questione del “devo anche trattare tutta l’epopea di Zuckerman per far capire al lettore di cosa stiamo parlando o lo lascio così, con uno spoiler fatto e finito?”
Insomma, un bel casino, cercate di capirmi. Ecco, per cui iniziate a comprendere anche la ragione di una introduzione tanto lunga a una recensione che forse non arriverà mai. Magari sta anche nascendo in voi il sospetto che questo mio rimuginio sia un tentativo maldestro di allontanare il momento in cui dovrò, per forza di cose, attaccare il nocciolo della questione e darvi le mie impressioni a proposito de L’orgia di Praga.
E come darvi torto?
Ma allo stesso tempo le domande di cui vi ho detto erano quanto mai concrete.
E le risposte?
Niente, allargavo le mani e facevo spallucce, come a dire “eh, e che ne so io” (non proprio così, ci aggiungevo una parolaccia tra il che e il ne, che qui non riporto per delicatezza).
Poi però, nel bel mezzo dell’incertezza, è accaduto qualcosa: ho letto la battuta che ho riportato nella citazione iniziale, pronunciata da Eva Kalinova e…
Un attimo, prima vi spiego chi è questa Eva, poi proseguo.
Si tratta di una delle più importanti attrici di teatro cecoslovacche, mirabile interprete checoviana, finché non ha lasciato il marito – amatissimo divo della canzone tradizionale morava – per mettersi con un uomo d’origine ebraica, Pavel Polak: per questo è stata insultata da molti suoi concittadini e convocata dal Viceministro della Cultura, che l’ha accusata di essere una ebrea sionista perché “le piace interpretare donne ebree” sulla scena. E poi Eva ha fato di peggio: si è unita ad un altro uomo di origini ebraiche, per giunta sposato: Zdeněk Sisovský.
Mannaggia, ora mi tocca spiegarvi pure di questo Zdeněk, essendo lui il coprotagonista della vicenda, e rimandare ancora. Ma altrimenti si rischia di non comprendere la vicenda.
Zdeněk è uno scrittore cecoslovacco. Quando aveva venticinque anni ha pubblicato un libro satirico: in seguito all’occupazione sovietica del 1968 questo ha fatto di lui un dissidente e gli ha precluso la carriera che sognava. Per non rassegnarsi alla russificazione, Sisovský ha mollato moglie e figli a Praga ed è emigrato all’estero con la sua amante, Eva, appunto.
Bene, ma immagino vi starete chiedendo che ci faccia il nostro Zuckerman insieme a queste due frustrate creature.
È presto detto.
A quanto pare il padre di Sisovský, scrittore come il figlio, ammazzato dai nazisti nel 1941, a differenza del figlio, compose una serie di straordinari racconti in lingua yiddish di cui non resta altro che un manoscritto custodito dalla ex moglie di Zdeněk, una certa Olga, a Praga, dove lui non può più recarsi poiché perseguitato dal regime (non che se il Paese fosse stato libero avrebbe rischiato di meno presentandosi alla porta della donna che aveva abbandonato, chiedendo di frugare nei cassetti, trovare la raccolta, e grazie e arrivederci, sia chiaro).
Ma tant’è: Zuckerman accetta, parte, conosce Olga (gran donna che ha già trovato piacevoli passatempi per dimenticare il marito – tipo tutti gli altri uomini), incontra Praga (gran città che ha già trovato piacevoli passatempi per dimenticare Kafka – tipo il comunismo) e fa tutto quello che ci si aspetta da lui, cioè farsi espellere dalla Cecoslovacchia.
Per cui, in due parole, ecco la trama, almeno sappiamo di cosa si parla e ora posso tornare alla citazione iniziale.
Eva la pronuncia proprio all’inizio del romanzo, durante il primo incontro tra Zuckerman e Sisovský. E mi ha fatto riflettere. Vedete, in questo romanzo, pur breve, c’è una quantità di tematiche che mi spaventa anche solo enumerare. Figuriamoci analizzarle. C’è il comunismo stalinista, l’occupazione sovietica, il bando silliano dei dissidenti, i valori capovolti di una società orwelliana, l’atmosfera kafkiana, una Praga in parte magrittiana in parte desadiana (orrendo termine, ma devo proseguire con le citazioni colte, vorrete perdonarmi), l’ottusa burocrazia gogoliana, personaggi checoviani, erotici festini kubrikiani, eccetera, eccetera, eccetera.
Tutto troppo: troppi riferimenti storici, letterari, eruditi. E ricordiamoci che io sono un imbianchino.
Ma quella frase di Eva mi ha aperto un mondo. Non c’è solo pastura per storici e critici in questo romanzo, no no, per niente. C’è altro. Qualcosa per cui vale davvero la pena leggerlo. C’è il presente e l’attualità, il nostro modo di sentire, quella desolazione costante che ci pervade quando vogliamo tanto (perché valiamo, perché siamo importanti, a sentire i messaggi che ci infonde il mondo intorno a noi, che con questa scusa ci induce a consumare, per legittimare il nostro valore di individui) ma stringiamo poco, perché poco in fondo possiamo stringere. Ne L’orgia di Praga c’è ironia, divertimento, un linguaggio che sin dalle prime righe ti fa sorridere e capire in che tipo di faccenda stai per finire:
Il suo romanzo – dice, – è assolutamente uno dei cinque o sei libri della mia vita.
Dica pure al signor Sisovsky, – dico io alla sua compagna, – che mi ha già adulato abbastanza.
Recita l’incipit, giusto per farvi capire cosa intendo.
Per cui, sebbene non sia di certo, ma non devo dirlo io, la miglior prova di Roth, anzi forse la peggiore, seppure sia uno scritto di oltre trenta anni fa, resta un romanzo da leggere perché anche la meno riuscita delle composizioni dello scrittore americano risulta di gran lunga superiore a buona parte di quel che si trova oggi sugli scaffali della Feltrinelli di fiducia (compreso, sia chiaro, un certo libro uscito a settembre di uno scrittore di thriller mio omonimo). In un certo senso potrebbe, questo romanzo, essere una buona porta di ingresso all’universo rothiano, per chi volesse avvicinarsi a uno scrittore di cui tanto si parla e forse poco si legge. Così, anziché partire con il Lamento del Portnoy piuttosto che con Pastorale americana e sentirvi dei piccoli sfigati ignoranti (come è successo a me), leggetevi questa ottantina di pagine e poi ditemi la vostra che io, la mia, l’ho detta anche senza forse dire nulla.
Philip Roth
Philip Roth ha vinto il Pulitzer nel 1997 per Pastorale americana. Nel 1998 ha ricevuto la National Medal of Arts alla Casa Bianca, e nel 2002 il piú alto riconoscimento dell’American Academy of Arts and Letters, la Gold Medal per la narrativa. Ha vinto due volte il National Book Award e il National Book Critics Circle Award, e tre volte il PEN/Faulkner Award.
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