Recensione di Loredana Cescutti
Autore: Peter May
Traduzione: Chiara Ujka
Editore: Einaudi
Collana: Einaudi Stile Libero
Genere: Noir britannico
Serie: Trilogia di Lewis # 2
Pagine: 368 p., R
Anno di pubblicazione: 2013
Sinossi. Sull’isola di Lewis viene rinvenuto il cadavere di un ragazzo miracolosamente conservatosi nel tempo. Il corpo, sul quale sono ancora visibili profonde ferite da taglio, inizialmente si ritiene sia rimasto sepolto per secoli. Ma nel corso delle analisi, sul braccio destro emerge un tatuaggio: Elvis. Dunque, il ragazzo deve essere rimasto nella torba per una cinquantina d’anni al massimo. Sull’isola di Lewis, nel frattempo, ha fatto ritorno l’ex detective Fin Macleod. Abbandonato il corpo di polizia a Edimburgo, Fin è tornato per riaccomodare la vecchia fattoria di famiglia e lasciarsi alle spalle alcune vicende dolorose. La storia del ragazzo della torbiera, però, lo coinvolge fin da subito. Il Dna del cadavere infatti ha diversi punti in comune con quello di Tormod Macdonald, padre di una vecchia fiamma di Fin, ora diventato un vecchio obnubilato dalla demenza senile. Un uomo che aveva sempre dichiarato di non avere parenti. Una verità che, come Fin ben presto scoprirà, Tormod aveva buoni motivi per continuare a tenere nascosta.
Su quest’isola sferzata dalle tempeste, a tre ore di distanza dalla costa nord-occidentale della Scozia, il poco terreno esistente, rubato alla roccia, concede alla gente cibo e calore. Ma ne accoglie dentro di sé anche i morti. E molto di rado, come oggi, ne restituisce uno
Recensione
“Le isole hanno qualcosa, a ghràidh, che alla fine ti riporta sempre qui.”
Era tempo di fare ritorno a Lewis.
Era tempo di risentire il rumore del vento che si infrange sulla roccia e sui frangiflutti in modo impetuoso.
Era giunta l’ora di rinfrancare nuovamente la vista con i colori ineguagliabili di Lewis.
Era il momento di risentire l’odore della torba messa ad asciugare al sole e della salsedine mossa dall’oceano.
Ora era proprio arrivato il momento di rimettere piede a Lewis, anche per tentare di riappacificarsi con i propri ricordi e con i propri fantasmi.
Ora è proprio giunto quel tempo.
“… non aveva nessun altro posto dove andare, poteva solo tornare nel grembo materno. Nel luogo che lo aveva allevato, alienato e alla fine allontanato. Era l’unico luogo, lo sapeva bene, dove avrebbe avuto la possibilità di ritrovare sé stesso. Tra la sua gente, parlando la sua lingua natale.”
Con questo secondo libro, a mio avviso Peter May si è superato, sia per il tema, sia per il come lo ha affrontato e soprattutto per le infinte emozioni che mi ha permesso di vivere.
Se ne “L’isola dei cacciatori di uccelli” la protagonista indiscussa era l’isola, con colori, odori, usi, tradizioni e il suo lato perennemente selvaggio, qui a primeggiare è qualcosa di ancora più importante, che rischia di andare perduto per sempre, portato via dalle onde di una memoria vacillante e malata, che non vuole collaborare e si trasformerà in un nemico da sconfiggere.
La verità!
Nella lettura si avverte prepotentemente il desiderio di dare voce a pensieri che scappano, a ricordi che fluttuano in modo disordinato e che non danno la possibilità di farsi riprendere che poi a che pro, se tanto il proprietario non sarebbe comunque in grado di rimettere ordine nel caos.
Una corsa contro il tempo perché la memoria è un dono importante, perché non ricordare potrebbe trasformarsi in una perdita per chi, giorno dopo giorno, si ritrova a vivere accanto ad una persona affetta da demenza senile.
“Non c’era modo di sapere che cosa pensasse, o che cosa sentisse, o quanto consapevole fosse di ciò che lo circondava. Tormod era perso da qualche parte nella nebbia della sua mente. Forse ogni tanto la nebbia si diradava un po’, ma altre volte, Fin lo sapeva, sarebbe scesa come una fitta coltre estiva oscurando la luce e la ragione.”
Per Tormond adesso la vita è questa, ossia il non riuscire più a sentirsi padrone di un corpo che ha preso il sopravvento e, poi c’è lui che non riesce a riprendere il controllo su nulla. Si sente perso, disorientato, non riesce a capire ciò che gli sta accadendo intorno, ravvisa la presenza di persone che per il suo cervello sono sconosciute e che però, si arrogano il diritto di decidere al suo posto, come se avesse più il controllo sulla sua vita. Come se fosse di nuovo un bambino. E forse è proprio ciò che gli sta accadendo, anche se lui semplicemente non riesce ad accettarlo.
In questo secondo romanzo della trilogia il passato si fa personaggio principale e tenta di portare alla luce rammenti di bambino a lungo sopiti. Le esperienze belle e brutte dell’infanzia, in poche parole, ciò che ha forgiato e ha trasformato il bambino che era nell’uomo che è diventato.
“Ero stato ed ero molte persone diverse, e senza dubbio lo sarei stato ancora in futuro.”
Un racconto attraverso i ricordi bloccati nella testa del papà di Marsaili che scorreranno come in una pellicola muta, e si mostreranno a noi ricchi di sofferenza anche per come Tormond cercherà di afferrarli così, alla rinfusa, confondendo fra passato e presente, nel tentativo, finalmente, di trovare un po’ di pace.
Per Fin e Marsaili però, la ricerca della verità si rivelerà ben più complicata proprio per l’incapacità di parlare dell’uomo, finendo per innescare a loro volta, tramite quest’indagine, rischi ben più concreti.
Non capisco perché io abbia atteso così tanto per immergermi nuovamente nelle atmosfere di Lewis! Questo è quello che mi sono detta già dopo poche pagine.
Quando a inizio anno avevo letto “Il cacciatore di uccelli” (trovate la mia recensione qui sul sito Thrillernord) ne ero rimasta folgorata e avrebbe avuto senso che io proseguissi subito con la lettura del secondo ma, a me piace aspettare per cui è rimasto in caldo nell’e–rader per un po’.
L’attaccamento che quest’isola induce sia su chi ci vive sia su chi è scappato rimane e si avverte in tutta la sua profondità, si respira in ogni frammento di parole, in ogni gesto, in ogni ricordo e la cosa bella è, che anche il lettore finisce per immergersi totalmente all’interno delle atmosfere di quest’inospitale quanto magnetico luogo e finisce per sentirsi parte della storia.
La scrittura è lieve e delicata a tal punto che la lettura si trasforma in un incredibile viaggio. Allo stesso tempo però, assume anche le sembianze di un mare in tempesta, incontrollabile come lo diventeranno da un certo momento in poi i ricordi, che finiranno per riportare in superfice un passato che a suo modo, sta tentando di sbiadire e scomparire definitivamente, tra gli anfratti del cervello e il fondo dell’Oceano.
In un contrasto perenne tra la dolcezza di alcuni flash e la brutale natura di questa tanto selvaggia ma al contempo protettiva isola, preparatevi a leggere una storia destinata a colpirvi e ad emozionarvi, oltre farvi rimanere in ansia fino alla fine, perché da quando tutta la macchina verrà messa in moto, i fatti si susseguiranno ad una velocità inarrestabile. Da un certo punto in poi, ad essere a rischio non saranno più solo i ricordi, ma anche la vita stessa.
“Ci allontaniamo così lentamente dalla nascita, e ci avviciniamo così rapidamente alla morte.”
Buona lettura!
Peter May
nato a Glasgow nel 1951, vive in Francia. Giornalista e autore di innumerevoli serie televisive, ha scritto una quindicina di romanzi. “L’isola dei cacciatori di uccelli” (Einaudi Stile Libero 2012) è il primo volume di una trilogia ambientata sull’isola di Lewis, e ha ottenuto uno straordinario successo di critica e pubblico in Gran Bretagna e in Francia, dove è stato insignito del prestigioso Prix Les Ancres Noir. Nel 2013 Einaudi Stile Libero ha pubblicato il secondo volume della trilogia, “L’uomo di Lewis”, e nel 2015 il terzo e conclusivo, “L’uomo degli scacchi”. Sempre per Einaudi, ha pubblicato, nel 2017, “Il sentiero”. Da poco è uscito con la medesima casa editrice anche “Lockdown” (2020).
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