Mi limitavo ad amare te




 Mi limitavo ad amare te

di Rosella Postorino

Feltrinelli 2023

narrativa, pag.352

Sinossi. A volte essere strappati all’amore è l’unico modo che abbiamo per sopravvivere. Nella primavera del 1992, sopra l’orfanotrofio di Sarajevo, il cielo è di lamiera. Omar ha dieci anni e, nonostante sia una cosa pericolosa, passa le giornate alla finestra sperando che sua madre torni: da quando una granata l’ha sottratta al suo abbraccio, non sa più se è viva. Di notte il fratello gli strofina il naso sulla guancia per fargli il solletico, ma non riesce a consolarlo. Soltanto Nada, con i suoi occhi celesti, è diventata per lui un desiderio. Ha sulla fronte una vena che pulsa se qualcuno la fa arrabbiare, e un fratello, Ivo, grande abbastanza da essere arruolato. Per allontanarli dalla guerra, una mattina di luglio un autobus porta via i bambini contro la loro volontà. Se la madre di Omar è ancor viva, come farà a ritrovarlo? E se Ivo morisse combattendo? In viaggio per l’Italia, lungo strade in macerie, Nada conosce Danilo, che ha mani calde e una famiglia, al contrario di lei, e che un giorno le fa una promessa. Segnati da una tragedia che scuote l’Europa e manda in pezzi il loro mondo, questi tre ragazzi soli stringono un legame tormentato e imprescindibile, che durerà per sempre. Rosella Postorino ci consegna un appassionante romanzo di formazione, e un romanzo di guerra, sull’“inconveniente di essere nati”, sulla facilità di compiere e di subire il male, sulla lealtà e sul tradimento, sulla sconfitta e sul riscatto, su quanto sia incredibile la pulsione di vita che perdura a dispetto di tutto. “Cosa facevo io mentre durava la Storia? Mi limitavo ad amare te.” Izet Sarajlic, Cerco la strada per il mio nome.


Mi limitavo ad amare te

A cura di Paola Iannelli


 Recensione Paola Iannelli

La consapevolezza di essere soli al mondo, cresce e si solidifica come una “crosta”, riuscendo a determinare lo spazio in cui si lacera il ricordo in una cicatrice solida, dura al tatto, visibile, così ricoperta da centinaia di avidi e piccoli microbi che combattono fra loro per la sopravvivenza.

Quella barriera formata da uno strato di epidermide spessita altera le linee morbide e ci obbliga a fermarci, così accade ai quattro bambini protagonisti di questo romanzo, resi soli dalla violenza cieca di una guerra che non risparmia nessuno. Violati dal seme dell’odio e della ferocia, voleranno in Italia per essere accolti dal velo della speranza, dove si celano però incertezze e dubbi verso gli atti di vera solidarietà.

Negli occhi di questi bambini vince il desiderio di nutrire un sogno, quello di riabilitarsi a una vita che a loro ha tolto tutto: la famiglia, gli odori, i colori.

La storia narrata ci immerge nel mondo confuso e al contempo straordinario dei ‘bambini di Sarajevo’, vittime sacrificali di un genocidio crudele che ha spezzato gli ordinari canali d’intere comunità abitative, colmando i rivoli della crudeltà fino a far implodere i già fragili confini della fratellanza.

Ogni bambino di questo racconto serba frammenti di ricordi nel fluttuante universo del dolore, insieme riusciranno a seppellirne una parte, seppur conservi nel proprio cuore l’aspra verità che non dona armi di difesa.

Sorprende che nessuno di loro cova il desiderio di vendetta, sono tutti schiavi di un principio comune che elabora il proprio lutto costruendo la strada che li condurrà alla liberazione del sentimento dell’odio.

Ciò che mi ha colpito è il nome proprio di una dei quattro: Nada. L’analogia con il castigliano sorge spontanea ‘niente’, come se in due sillabe si concentrasse il succo di chi si trova a vivere un disagio esistenziale fuori dagli schemi ordinari, un lascito pieno di ombre e ferite. Questa bambina attraverserà il fiume cadendo e ricadendo mille volte, per poi ritrovarsi a mirare l’orizzonte, la sconosciuta linea che non termina di sorprenderci a ogni alba e a ogni tramonto.

Il grembo materno si trasforma nell’unico nido possibile, un chiostro retto dalle colonne della linfa che nutre il mondo, rifugio e prigione in questa parte del globo annerito da una guerra orribile.

Legittimo è pensare che sarebbe meraviglioso non dover più parlare di guerre, eppure ancora oggi dopo secoli di devastazioni fisiche, economiche e morali siamo al centro di un conflitto che si potrebbe evitare con la parola del sorriso e dell’accoglienza.

La Postorino incide il vocabolario dei sentimenti con parole che vanno dritte al cuore, cercando di non ledere i fili che sorreggono l’unica vera trama esistenziale: l’amore.

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Rosella Postorino


Rosella Postorino (1978) vive e lavora a Roma. Ha esordito nella narrativa nel 2004 con il racconto In una capsula all’interno dell’antologia Ragazze che dovresti conoscere (Einaudi). Nel 2007 è uscito il suo primo romanzo La stanza di sopra (Neri Pozza; Premio Rapallo Opera Prima, è entrato nella dozzina del Premio Strega). Ha in seguito pubblicato L’estate che perdemmo Dio (Einaudi 2009, Premio Benedetto Croce, Premio speciale della giuria Cesare De Lollis), Il corpo docile (Einaudi 2013, Premio Penne), la pièce teatrale Tu (non) sei il tuo lavoro all’interno di Working for Paradise (Bompiani 2009) e Il mare in salita (Laterza 2011).
Ha tradotto e curato alcune opere di Marguerite Duras. Con il romanzo Le assaggiatrici (Feltrinelli 2018) ha vinto la 56esima edizione del Premio Campiello, il Premio Pozzale Luigi Russo, il Premio Rapallo, il Premio Vigevano Lucio Mastronardi, il Premio Wondy e il Premio Chianti. Inoltre il romanzo è stato Libro dell’anno per i gruppi di lettura di Fahrenheit Radio Tre.

A cura di Paola Iannelli

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