Sinossi. X passa le sue giornate fumando marijuana e vendendo on-line sneakers rare prima di diventare un detective privato pagato per risolvere un caso. Vent’anni fa era un rapper famoso, quando ancora la musica hip hop non era in classifica, e il suo unico disco gli ha permesso di ottenere lo status di “artista di culto”, rispettato e ascoltato anche dalle nuove generazioni. Sulla copertina di quel famoso album c’era lui con una felpa col cappuccio e una “X” tatuata sul collo. Oggi quel tatuaggio appare sul collo di Aelle, il ragazzo ucciso di cui parlano tutti i giornali. E che è uguale a lui vent’anni fa. Come resistere alla tentazione di andare al funerale, per scoprire che il vero nome di Aelle è Aliseo Landini Della Santa? Figlio di Nicola Landini Della Santa, milionario. L’uomo che oggi gli offre cento euro l’ora per indagare sulla morte del figlio, e duecentomila in caso di soluzione del mistero. Un’offerta che non si può rifiutare. È solo l’inizio di un’indagine che lo porterà a toccare con mano gli splendori e le miserie della Milano di oggi, tra attici in centro e panchine in periferia, a rischiare la vita, e a incontrare l’amore. Sempre a tempo di rap. Sospeso tra il mondo dei Club Dogo e quello di Raymond Chandler, con un eroe che sembra l’impossibile punto di incontro tra Humphrey Bogart e Fabri Fibra, Morte di un trapper è l’esordio nel noir di Giovanni Robertini, che conosce bene dall’interno il mondo dell’hip hop italiano. Un libro unico, ambientato in una Milano che ricorda la Los Angeles dei romanzi di James Ellroy o del film Chinatown di Roman Polanski.
MORTE DI UN TRAPPER
di Giovanni Robertini
HarperCollins 2023
Noir, pag.223
Recensione di Salvatore Argiolas
Per molti critici il noir non è una genere narrativo ma una categoria dello spirito, uno stato d’animo e per Raymond Chandler è un modo per rappresentare il mondo, un mondo che “non è molto profumato, ma è il mondo in cui dobbiamo vivere; e certi scrittori rudi e violenti, forniti di fredda capacità di analisi, possono trarne canovacci interessanti e persino divertenti. Non è strano, a volte che un uomo venga ammazzato, ma è strano che un uomo venga ammazzato per così poco, e che la sua morte sia il marchio di quella che chiamiamo civiltà.”
Questi due tentativi di definire il concetto sempre sfuggente e cangiante di noir possono servire per inquadrare bene “Morte di un trapper” il bel noir di Giovanni Robertini, giornalista esperto di musica e di tutto quanto orbita intorno al prodotto musicale.
Nel noir e nell’hard boiled, che è la sua derivazione nata con i romanzi di Dashiell Hammett e Raymond Chandler, c’è sempre un contrasto tra la realtà e l’ambiguità della sua narrazione e già il titolo “Morte di un trapper” racchiude un modo per indicare il quadro in cui si inserirà la trama in quanto il momento di partenza del plot è la morte per overdose di un ragazzo che come suoi coetanei veste come una divisa, quella di tanti giovani, “la tuta, soldato semplice dell’esercito che non deve rendere conto di niente a nessuno” e “un sito come quelli creati apposta per acchiappare click titola
“Morte di un trapper”…Ma quale trapper? Quale cazzo di trapper? Non ha mai fatto musica, perché scrivono queste cose?”
Un rapper di successo, uno dei più famosi esponenti del genere, ora in crisi ispirativa, si incuriosisce della rassomiglianza di Aliseo detto Aelle, il ragazzo morto, sia come fisico sia come abbigliamento che copia il suo stile di vestire e decide, per conoscere meglio il defunto di seguirne il funerale.
Il rapper, senza nome come i protagonisti dei romanzi di Hammett e di Bill Pronzini, scopre così che Aelle era un suo fan e viene ingaggiato dal padre per capire il contesto della morte del figlio:
“Io vorrei che lei mi aiutasse a capire come è morto Aliseo. Vorrei sapere chi gli ha venduto la droga, quando, perché. Che gente frequentava…”
“Ma io non sono un detective e neanche un poliziotto.”
“Ho già assunto il miglior detective privato della città e brancola nel buio, per non parlare della polizia… Loro non sanno niente del mondo di Aliseo, sono degli alieni o l’extraterrestre era mio figlio e la gente che vedeva. Lei però può salire su quella navicella spaziale, o almeno provarci.”
Il padre di Aliseo è un influente finanziere e si rivolge al rapper perché lo ritiene in grado di avere la capacità semiologica di capire il mondo del trap che costituiva l’ambiente privilegiato in cui gravitava Aelle e il rapper che qualcuno chiama king, rizza le antenne e comincia a seguire le tracce lasciate dal ragazzo, sia in messaggi telefonici sia nelle coordinate dei suoi spostamenti, perlustrando una Milano inconsueta e stupefacente.
“Piazzale Loreto sembra il Cairo: traffico impazzito, clacson, gente che sciabatta, le canotte NBA dei latinos strizzate su panze piene di birra in lattine da sessantasei. Il tabaccaio cinese da cui mi fermo a comprare la cartine è impizzato, si agita ballando con la testa il k-pop a tutto volume mentre con l’unghia del mignolo lunga quattro centimetri gratta un Turista per caso. Dopo un paio di serrande sbruciacchiate vedo un capannello di ragazzini che agita le mani su e giù e muove il labiate al ritmo di un pezzo di Rakwon che ho in cuffia, stanno facendo freestyle in attesa di entrare in studio da Whipra.
Questo è il rap a Milano, una preghiera di strada da fare in gruppo, una liturgia che regola il flusso della giornata dei devoti al dio del denaro e del successo.”
Giovanni Robertini utilizza con bravura i canoni più consolidati dell’hard boiled, compresa anche un’affascinante Dark Lady che si fa chiamare TBK (Trap Bitch Kekab) con lo scopo di farci conoscere una realtà che sta davanti agli occhi ma che pochi capiscono.
Infatti king svela la struttura portante del genere in un passaggio molto illuminante:
“La verità è che le rivelazioni che adesso dovrei chiedere a Creemo, l’ultimo a parlare con Aelle, forse il depositario del segreto che quel ragazzo era riuscito a nascondere nella sua condizione di plug al servizio della Milano che conta, insomma la suspence che adesso dovrei prolungare nella testa dei lettori di questo mio primo giallo da investigatore controvoglia, quindi molto, molto peggio di tutti quelli delle serie tv che un po’ ci credono, non valgono un cazzo di niente.”
“Morte di un trapper” è la storia di una catarsi che si serve delle strutture canoniche del noir per mostrare la faccia nascosta di una metropoli dalle mille facce, “perché è qui che succede tutto, il luogo in cui il divario tra ricchi e poveri è più visibile, gli affitti sono più cari e la qualità della vita è più bassa. Alla fine è il set perfetto per un videoclip: i casermoni delle popolari, con tanto ti spaccio, lame kebab e pollo fritto e , a poche fermate di tram, lo skyline del centro, i loft di lusso, il quadrilatero della moda, il sashimi e gli chef stellati.”
Il libro fa emergere il mondo della musica contemporanea e permette di penetrare una realtà che esiste a prescindere della volontà di prenderne atto e che diventa sempre più indicativa del disagio e della difficoltà di affermarsi, vissuti da una generazione.
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Giovanni Robertini
ha diretto linus e Rolling Stone, per cui ha scritto di musica rap e intervistato tutti i protagonisti della scena italiana. Autore televisivo, ha lavorato, tra i tanti programmi, a Avere Ventanni, Le Invasioni Barbariche e Splendida Cornice. Ha pubblicato L’ultimo party (2013) e La solitudine di Matteo (2020).