Recensione di Michela Bellini
Autore: Jesús Carrasco
Traduzione: Pino Cacucci
Editore: Ponte alle Grazie
Genere: narrativa
Pagine: 272
Anno di pubblicazione: 2022
Sinossi. Juan è riuscito da poco a emanciparsi dalla famiglia, lontano dal suo paese natale, quando si vede costretto a fare ritorno a casa, in Spagna, per la morte del padre. La sua intenzione, dopo il funerale, è di riprendere il prima possibile la sua vita di aiuto giardiniere a Edimburgo, ma la sorella gli dà una notizia che cambiai suoi piani per sempre. Senza volerlo, si ritroverà bloccato nello stesso luogo dal quale aveva deciso di fuggire, a prendersi cura di una madre che a stento conosce e con la quale sente di avere un’unica cosa in comune: la vecchia Renault 4 di famiglia. Lo straniamento fra loro, amplificato dal ribaltamento dei ruoli, si fa sentire con forza: Juan fatica ad assumersi le sue responsabilità, ma a poco a poco scende a patti con le sue radici, e ritrova il se stesso che aveva dimenticato partendo per Edimburgo. Con la sua scrittura scarna e carica di suggestioni, Carrasco ci consegna una storia intima e commovente sul rapporto tra genitori e figli, tratteggiando personaggi vividi e dolenti, costretti a decisioni cruciali quando le loro certezze crollano e la vita li mette alle corde.
Recensione
Un libro che fa pensare, che fa riflettere. Il rapporto coi genitori e con il loro decadimento, le tensioni in famiglia e le difficoltà nelle relazioni, il legame con le proprie radici, in una parola, la vita.
La storia si svolge nell’agosto 2010 in Spagna, nella regione di Castiglia-La Mancha, al centro-sud, sullo sfondo della campagna rovente nei dintorni di Torrijos. Il paese dove si svolge la vicenda si chiama, molto simbolicamente, Cruces, che vuol dire croci, ma anche incroci, crocevia.
Carrasco dipinge con tratti forti e scarni la realtà difficile ma anche solida della Spagna rurale, di coloro che, come i genitori di Juan, il protagonista, hanno lasciato la coltivazione dei campi, conservando però la proprietà di alcuni terreni di cui devono continuare ad occuparsi, per intraprendere faticosamente altre strade di emancipazione, fatte di lavoro costante e faticoso.
Una vita al centro della quale sta il lavoro, un tiranno al quale è normale dedicarsi sempre e costantemente con dedizione e sacrificio. Per questo la parola lavoro e il verbo lavorare compaiono infinite volte nel testo della narrazione.
I loro figli invece sono disorientati, sognano una vita completamente diversa e sentono le loro radici come catene che impediscono loro di realizzarsi.
Juan, ha cattivi rapporti con tutta la sua famiglia, dalla quale è praticamente fuggito: una sorella capace solo di rimproverarlo, un padre che non riesce ad affrontare, una madre con la quale non c’è comunicazione, né pare esserci mai stata tenerezza. Cose che non fanno parte del duro mondo rurale, non solo spagnolo, dove i figli sono visti più come un elemento di continuità ovvia e necessaria che come persone da amare.
In un contesto così chi, come Juan, cerca di cambiare lo fa di colpo e malamente, sapendo quanto forti siano i legami con quel modo di vivere e quanto difficile sia riuscire a romperli davvero senza prima averli risolti:
“…Quel tipo di tachicardia gliela provocava solo suo padre ed era, precisamente, il motivo per cui aveva mantenuto il segreto finché non era stato tutto pronto.”
Juan sente che se ne deve andare, che lì non può restare. Dove non ha molta importanza, basta che sia un posto diverso, possibilmente una città. E’ lì che pensano di trovare mille opportunità tutti quelli che lasciano la campagna, spopolando le regioni bruciate dal sole.
Il protagonista appare confuso, uno che non accetta la realtà perché non gli piace. Un giovane uomo che si comporta come un adolescente. E’ arrivato tardi anche per il funerale del padre:
“…Avrebbe potuto stare accanto a suo padre la notte in cui morì ma, in un certo senso, Juan Alvarez preferì non farlo. Non è che avesse scelto di stare lontano da lui in quel momento cruciale. Semplicemente continuò a fare quello che stava facendo…”.
Qui c’è tutto Juan, con la sua incapacità di affrontare le cose, che, dopo aver evitato di tornare durante la malattia del padre, ha cercato di rimandare il ritorno il più possibile. Si è aggrappato alla sua nuova vita ad Edimburgo, dove peraltro non era riuscito a combinare un granché, ma non aveva nessuna importanza, era un posto diversissimo dal suo paese d’origine e lontano migliaia di chilometri e questo era l’essenziale:
“…Se sono andato a vivere così lontano, signora, è perché non voglio stare qui. Mi sembra semplice. Ho deciso di venire meno ai miei obblighi di figlio…sono un ingrato…”
pensa ma non dice Juan.
Quindi è a malincuore che lui ritorna, per paura di rimanere intrappolato dalle sue radici.
Sarà invece proprio a Cruces, che stavolta sarà un crocevia, che Juan, trovandosi obbligato a rimanere, riuscirà finalmente a fare il passaggio, a diventare uomo e prendersi le sue responsabilità, a prendere coscienza di sé stesso e dei valori sani di quella società, senza accettarne i lati negativi.
Ritroverà così anche il rapporto con la sorella maggiore, apparentemente così diversa da lui, ma con istanze in realtà molto simili.
Sono in definitiva
i temi universali della definizione di sé, della ricerca del significato della vita, del proprio posto nel mondo,
quelli che Carrasco, autore balzato alla ribalta nel 2013, affronta con grande sensibilità in questo suo terzo romanzo.
Una storia di vita che non finisce, lasciando aperti interrogativi a quel punto non più così importanti.
Jesús Carrasco
è nato a Badajoz, in Estremadura, nel 1972 e nel 2005 si è trasferito a Siviglia, dove risiede attualmente. Dal 1996 lavora come copywriter pubblicitario, attività che concilia con la scrittura. Nel 2013 esordisce con Intemperie, pubblicato per Salani: il romanzo è stato la rivelazione dell’anno in Spagna, venduto in 14 Paesi. Nel 2018 è uscito La terra che calpestiamo, Ponte alle Grazie, col quale ha vinto il Premio letterario dell’Unione Europea.
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