Recensione di Velia Speranza
Autore: Andrew Krivák
Traduzione: Giovanna Granato
Editore: Einaudi
Genere: Narrativa
Pagine: 272
Anno di pubblicazione: 2018
Sinossi. Nel cuore dei monti Appalachi, nei primi anni Settanta, Jozef Vinich, patriarca di una numerosa famiglia di origini slovacche, è morto di vecchiaia nel proprio letto, all’ombra della fiorente segheria che ha costruito di ritorno dalla Prima guerra mondiale. Sotto il suo tetto hanno vissuto tre generazioni lacerate dalla guerra: il marito di sua figlia Hannah, Bexhet, ha disertato nel secondo conflitto mondiale per poi restare ucciso in un controverso incidente di caccia; il nipote, Sam, è da tempo disperso in Vietnam. Ad attenderlo, oltre alla famiglia, ci sono la fidanzata Ruth, la figlia dell’uomo accusato di aver ucciso Bexhet, e il bambino che porta in grembo. Nell’inverno piú gelido della propria vita, soltanto il primogenito Bo s’incarica di raccogliere l’eredità del nonno e la lezione della terra, lavorando in silenzio, giorno dopo giorno, per la fine delle ostilità.
Recensione
Fin dalle prime battute, Questa terra presenta un sapore ben noto nella bocca del lettore.
Non è difficile rendersi conto che il romanzo si fonda su alcuni dei temi più cari alla tradizione americana, quali l’autoaffermazione dell’individuo partendo da una situazione di completo svantaggio e la costruzione di fortune tramandate ai posteri, il cui ruolo sarà quello di gestirle al meglio e di farle prosperare.
Non a caso il romanzo si apre con la morte del capostipite, Jozef Vinich, immigrato slovacco che, giunto in America senza fortuna, si costruisce la propria vita un passo alla volta, conquistando nell’ordine un lavoro, la donna amata e una proprietà.
Dietro ognuna di queste vittorie si nasconde la caparbietà e l’audacia di Jozef, capace di vedere gli ostacoli ad un desiderio bruciante posto proprio al centro del cuore e di superarli, un passo per volta, con la pazienza tipica di chi non ha avuto nulla.
Quella di Jozef è una figura catalizzante, simile ad un’enorme quercia che fornisce linfa a chi gli sta intorno, che riempie i pensieri e gli spazi.
E così entrambi i nipoti, Bo e Sam Konar, cresciuti senza padre, si ritrovano a parlare sottovoce con lui anche quando non è con loro, a ragionare con l’ombra del nonno che si proietta su di loro senza mai abbandonarli.
La morte di un simile personaggio genera un vuoto considerevole, una voragine al centro della vita della sua famiglia. La si avverte chiara e netta, impatta fra le emozioni del lettore costringendolo a portare lo stesso lutto della famiglia Konar.
E quella stessa malinconia che attraversa tutto il romanzo, avvolgendo personaggi e paesaggio, si posa anche sulle spalle del lettore, personaggio-spettatore, membro estraneo di una famiglia che finisce per diventare la propria.
Ovviamente, il merito di una tale completa immedesimazione va senz’altro all’autore, Andrew Krivak. Senza mai sfociare nel patetico, senza righe e paragrafi interi di sentimenti sbandierati, Krivak tratteggia l’animo dei suoi personaggi, il dolore ed il ricordo del passato. “L’amore a diciott’anni” basta a rendere tutta l’impetuosità e l’irragionevolezza dell’amore giovanile; diciannove lettere sufficienti a narrare e racchiudere l’amore di Sam e Ruth Yonger, contrastato per la storia delle famiglie. È, ancora una volta, il passato a pesare sul presente, un passato ingombrante e vivo e pulsante senza il quale sembra non poterci essere futuro. Il passato di due famiglie e di una città intera, che si intrecciano in maniera inesorabile.
A scandire il tempo della famiglia ci pensa la guerra. Un membro di ogni generazione vive quella del suo tempo, ne viene inghiottito e trasformato: Jozef Vinich lascia il suo paese alla fine della Grande Guerra, diretto verso un nuovo inizio; Bexhet Konar, genero di Jozef, diserta nel corso della Seconda Guerra Mondiale, perdendo sé stesso nel vecchio continente; Sam Konar è disperso nel Vietnam, dove pensava di poter finalmente capire chi fosse.
Ogni guerra lascia cicatrici più profonde di quella precedente, ma nel contempo rende più forti coloro che rimangono; un ossimoro tanto quanto immaginare la guerra come un elemento di scansione del tempo, quando nei fatti lo dilata fin quasi a fermarlo.
Ad unire la famiglia Konar, le sue tre generazioni, nel corso degli anni è, come anticipa il titolo del romanzo, la terra. Quella stessa terra presa con fatica da Jozef Vinich e coltivata prima da Hannah, sua figlia, e poi da Bo, suo nipote. Ogni famigliare si approccia ad essa portandole le proprie doti, le proprie capacità, affrontando diverse difficoltà.
Dal capostipite self made man vero e proprio, continuano questa tradizione, l’unica per loro possibile dal momento che ogni allontanamento dal suolo natio comporta una perdita, una delusione ed un rimpianto. E così la vita della famiglia si ritira fra i pali di ferro che delimitano la loro proprietà, l’unico luogo in cui, fra le fatiche della vita agricola, possono ritrovare la felicità.
La connessione è così profonda che, come nelle opere degli scrittori romantici, la natura diventa specchio delle loro emozioni, spegnendosi ed accendendosi nei colori, nelle stagioni, in relazione al loro stato d’animo.
La terra è la loro bolla di vita, un mondo a parte gestito da leggi differenti. Essere ammessi al suo interno non è facile, ma, una volta accettati, è per sempre e potervi sfuggire non più pensabile.
Andrew Krivák
Discendente da slovacchi emigrati negli Stati Uniti, Andrew Krivák è nato in Pennsylvania, laureandosi poi alla Columbria University. Dopo aver trascorso alcuni anni a Londra, ora vive nel Massachussets insieme alla moglie ed ai tre figli. Nel 2011 ha esordito con il romanzo Il soggiorno, con cui si è aggiudicato Chautauqua Prize, il Dayton Literary Peace Prize e con cui è stato finalista per il National Book Award. Nel 2018 Einaudi ha pubblicato il suo ultimo romanzo, Questa terra.