RANDAGI




Recensione di Francesca Mogavero


Autore: Marco Amerighi

Editore: Bollati Boringhieri

Pagine: 400

Genere: Narrativa

Anno di pubblicazione: 2021

Sinossi. A Pisa, in un appartamento zeppo di quadri e strumenti musicali affacciato sulla Torre pendente, Pietro Benati aspetta di scomparire. A quanto dice sua madre, sulla loro famiglia grava una maledizione: prima o poi tutti i Benati maschi tagliano la corda e Pietro – ultimogenito fifone e senza qualità – non farà eccezione. Il primo era stato il nonno, disperso durante la guerra in Etiopia e rimpatriato lanno dopo con disonore. Il secondo, nel 1988, quello scommettitore incallito del padre, Berto, tornato a casa dopo un mese senza il mignolo della mano destra. Quando uno scandalo travolge la famiglia, Pietro si convince che il suo turno è alle porte. Invece a svanire nel nulla è suo fratello maggiore Tommaso, promessa del calcio, genio della matematica e unico punto di riferimento di Pietro; a cui invece, ancora una volta, non accade un bel niente. Per quanto impegno metta nella carriera musicale, nelluniversità o con le ragazze, per quanto cambi città e nazione, per quanto cerchi di tagliare i ponti con quel truffatore del padre o quella ipocondriaca della madre, la sua vita resta un indecifrabile susseguirsi di fallimenti e delusioni. Almeno finché non incontra due creature raminghe e confuse come lui: Laurent, un gigolò con il pallino delle nuotate notturne e lalcol, e Dora, unappassionata di film horror con un dolore opposto al suo. E, accanto a loro, finalmente Pietro si accende. Con una trama ricca di personaggi sgangherati e commoventi, e una voce in grado di rinnovare linguaggi e stili senza rinunciare al calore della tradizione, Randagi è un abbagliante romanzo sulla giovinezza e su quei fragilissimi legami nati per caso che nascondono il potere di cambiare le nostre vite. Un affresco che restituisce tutta la complessità di una generazione: ferita, delusa e sradicata dal mondo, ma non ancora disposta a darsi per vinta..

Recensione


Il ramo maschile della famiglia Benati ha la sparizione nel DNA.

Una scomparsa tangibile, attestata, ma senza giustificazioni: il Maggiore fa perdere le proprie tracce in Etiopia, si rifà una vita, poi torna a Pisa, trascinato, con disonore e poche parole; Berto svanisce per un mese e quando riappare mancano sia le spiegazioni sia un mignolo; Tommaso, così caro al cielo e a tutti, va via di colpo e fa male, perché ci sarebbe ancora molto da dire.

Lunico a restare vuoi per il carattere, vuoi per reazione uguale e contraria, vuoi per la vocazione di parafulmine della madre Tiziana è Pietro. Una carriera musicale stroncata un attimo prima di fare il botto, la prospettiva accademica forse non desiderata fino in fondo, per non parlare della ragazze i lungometraggi che Pietro si fa in testa sono azione pura, ma nella realtà si traducono in film muti.

Ma, in fondo, non è anche questa una forma più sottile, metaforica e lacerante di sparizione?

Pietro sceglie di dileguarsi dallesistenza attiva, scelta, con i suoi rischi e le sue acrobazie: è allo stesso tempo qui, con le sue forme ingombranti da Bombolo, la sua tenera goffaggine, e altrove, spettatore in un ultima fila di una vita che scorre nonostante tutto e tutti.

Troppo preso, e abituato, dal pensiero di arrivare ultimo ancora prima del fischio di inizio, non si accorge di essere al centro di altre preoccupazioni, altri discorsi e altri cuori. Finché la vita, stanca di essere ignorata, scartata al bordo del piatto, come un ciuffo di insalata o un germoglio, che non si sa bene a cosa serva o se sia più o meno commestibile, lo prende per le spalle e lo scrolla senza cerimonie né delicatezza.

Pietro, in Erasmus in Spagna, incontra Laurent e Dora: tre randagi per motivi diversi, ma che insieme possono formare un branco, ringhiando in toni e direzioni differenti, ma tutto sommato rosicchiando il medesimo osso. E non solo per necessità.

Il nostro eroe eroe proprio perché imperfetto, è uno e moltitudine, capro espiatorio e tutti noi cresce e cambia, si sposta, finalmente piange, sanguina e urla, ma soprattutto sperimenta, esplora, tocca e vive. E i lettori con lui.

Marco Amerighi scrive un romanzo vigoroso, brillante, ironico e commovente, in cui cadute e serate pazzesche, delusioni annunciate (cercate?) e preziose rivalse, parenti assurdi, amici straordinari e i fratelli che ognuno di noi vorrebbe si amalgamano in modo imprevedibile e perfetto…

Comè nel quotidiano, nellalternarsi di lacrime e risate (che a volte vanno a braccetto e si danno il cinque), di errori, parole a sproposito e magicamente propizie, nella forza (di volontà o di inerzia) con cui ci si alza ogni mattina, talvolta voltando le spalle al condor nero dagli occhi di brace, alla via già tracciata, per intraprendere altri percorsi e trovare sempre qualcosa che valga un agitar di code, un battito di cuore.

 


INTERVISTA

a cura di Francesca Mogavero 


Ciao Marco, grazie per essere qui con noi, è una gioia intervistarti dopo aver letto e recensito il tuo romanzo. Finalista al Premio Strega: come stai e come stai vivendo questa notizia?

Sto molto bene, grazie. Solo con un po’ più di tachicardia del solito, come se avessi esagerato con i caffè. La notizia dello Strega è stata una sorpresa, splendida ovviamente. Ora sono molto curioso di conoscere meglio le altre autrici e gli altri autori finalisti.

Hai già informato Pietro e gli altri? Cosa ne pensano? 

Da buoni randagi hanno reagito… dandosela a gambe. Anche se certe volte non sanno esprimere ciò che provano, so che stanno esplodendo di felicità.

Uno degli aspetti che più mi ha colpito del tuo libro è la molteplicità delle voci, non solo quella del protagonista, che emerge potente e innesca subito un meccanismo di empatia, ma anche quella degli altri personaggi: ognuna si distingue, è unica, credibile e originale. Come ci sei riuscito? 

Bisogna voler bene ai propri personaggi. Provare il desiderio di voler passare del tempo con loro, per ascoltarli e capirli. Anche con i più controversi o negativi. In fondo noi tutti viviamo dei passaggi a vuoto, momenti in cui per qualche motivo ci trasformiamo (se non lo siamo già) in esseri egoisti o superficiali. Ma non per questo ci meritiamo di essere abbandonati in un angolo. La letteratura è l’arte dell’ascolto. Senza questa volontà, senza l’interesse verso gli altri, non si può vestire i panni di nessuno.

Com’è nata la storia? 

Da un bivio. Mi trovavo nella stessa situazione di Pietro Benati all’inizio del romanzo: indeciso tra l’accontentarmi di una vita comoda ma poco soddisfacente o lanciarmi in un altrove pericoloso ma più stimolante. Da una parte Pietro si sente schiacciato da una famiglia talentuosa, fatta di uomini straordinari con una propensione per gli atti eroici, seppur disastrosi o truffaldini. La soluzione sarebbe andarsene, se non fosse per quella fifa tremenda che gli impedisce di confrontarsi con il mondo e con gli esseri umani. E allora che fare? Un bel dilemma, da cui Pietro però non può scappare in eterno. E infatti cede: si getta – anzi, viene gettato – in un’acqua gelida e buia, metaforicamente parlando, ed è costretto a imparare a nuotare.

Quanto ha inciso la tua esperienza di editor sulla scrittura?

Di sicuro mi ha trasmesso la costante insoddisfazione della frase: la volontà di riscrivere e riscrivere sempre, alla ricerca di un modo migliore per tradurre i pensieri in linguaggio scritto. Un editor alla fine mette un punto. Lo scrittore – ahimè – non lo metterebbe mai.

La giovinezza e la musica, i rapporti tra padri e figli, la Toscana, le sparizioni (reali e simboliche) sono temi e ambienti che ti stanno a cuore…

Non a caso sono temi che ricorrevano già nel mio primo romanzo [Le nostre ore contate]. Il tema della fuga, e della scomparsa dagli obblighi famigliari e societari, mi ha sempre affascinato. Forse perché si genera da una mia paura concreta, e dolorosissima: cosa succederebbe se, di colpo, scomparissi? Il mondo ne sarebbe dispiaciuto, mi cercherebbe? E se, invece, non se ne accorgesse neppure? Da scrittori non facciamo altro che sforzarci di lasciare una traccia, grafica, fatta di parole. Ma servirà a qualcosa o il tempo ricoprirà di sabbia tutto quello che scriveremo? Ecco perché la scomparsa. Immagino che non ci sia una risposta a queste riflessioni. Ma cercarla mi fa sentire di vivere per uno scopo.

In Randagi ci sono personaggi ingordi di vita, al punto di farne quasi indigestione, e c’è chi, come Pietro, si impone quasi il digiuno: esiste una “dieta” ideale? 

Credo che le indigestioni servano quanto i digiuni. Perché è in quei momenti che ci accorgiamo di aver esagerato, di esserci allontanati troppo dalle nostre reali necessità. È l’adagio più antico e saggio del mondo: sbagliando si impara. Sì, va bene, ma che cosa? La verità, forse? Dio me ne scampi e liberi, no. Forse semplicemente si impara a non farlo più, a cercare una nuova via, una via non perfetta ma più adatta. Più “digeribile”. 

Pietro e Tommaso hanno un legame fortissimo, forse al di là del fatto di essere fratelli: opposti che si completano, due facce della stessa medaglia o…?

Ti cito due autori. Adorno: “amore è riconoscere il simile nel dissimile”. Vasco Pratolini: “amore è prendersi cura l’uno dell’altro, è difesa, è sangue che si mescola al tuo sangue” Tommaso e Pietro non potrebbero essere più diversi. Ma si spalleggiano, si difendono, si feriscono insieme, e insieme soffrono. In una parola sola: si amano.

Chi sono, per te, i “randagi”?

I randagi sono persone come Pietro Benati: ragazze e ragazzi cresciuti nella certezza che nella vita avrebbero avuto felicità e successo perché i loro genitori dicevano loro che così sarebbe stato. E invece sono stati la prima generazione della decrescita, la prima a vivere in condizioni di instabilità economica, politica e sociale maggiore dei loro predecessori. Una consapevolezza che li ha destabilizzati, spaesati a tal punto da farli diventare raminghi, randagi appunto, come in preda a un terremoto invisibile che – dal G8 di Genova agli attentati terroristici di Madrid fino ai moti di contestazione studentesca – li porta a vagare senza meta. La loro unica certezza è la presenza di molti altri randagi come loro, e la capacità di riconoscersi come branco: una famiglia ibrida, fluida e allargata, ma fatta dello stesso impasto sgangherato, generoso e battagliero.

A cura di Francesca Mogavero

Marco Amerighi 


Marco Amerighi vive a Milano, dove lavora come traduttore, editor e ghostwriter per varie case editrici. Il suo romanzo desordio, Le nostre ore contate (Mondadori, 2018), ha vinto il premio BaguttaOpera Prima ed è stato pubblicato in Francia. Randagi è il suo secondo romanzo.

 

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