IL DELITTO DI SAMAN ABBAS




di Gianmarco Menga

Real stories

a cura di Kate Ducci


Editore: Newton Compton

Pagine: 184

Anno edizione: 2024

Sinossi. Novellara, notte tra il 30 aprile e il 1º maggio 2021. La telecamera dell’azienda agricola Le Valli inquadra una ragazza che esce di casa. Un’ora prima era stata ripresa nello stesso punto, con il velo a coprirle il capo e una tunica che le arrivava alle ginocchia. Adesso, invece, indossa dei jeans, scarpe da tennis e una giacca in pelle. Dietro di lei camminano a passo spedito i suoi genitori. Dove sta andando? E perché ha cambiato i vestiti? Cinquantotto secondi dopo, l’occhio elettronico riprende la madre che rientra in casa, seguita dal marito. Nessuna traccia della ragazza: Saman. Il suo corpo senza vita sarà ritrovato un anno e mezzo dopo, a pochi passi da lì. Aveva diciotto anni e aveva già provato a fuggire da una famiglia che non le consentiva di studiare e di innamorarsi di chi voleva. Sognava di essere libera: un sogno che ha pagato con la vita.

Il racconto di quanto accaduto a Saman ha riempito le cronache degli ultimi anni, in mezzo a tanti altri racconti di tristi sparizioni che talvolta, purtroppo, non hanno trovato risposta né giustizia; ma a mio avviso la storia di questa ragazza ha una vena di tristezza particolare, non dico maggiore bensì distintiva.

Perché la storia di Saman non parla dell’ennesimo caso di donna scomparsa o uccisa in quanto si è rifiutata di cedere a un corteggiamento, ha deciso di porre fine a una relazione, o si è trovata a passare dal luogo sbagliato al momento sbagliato. Saman voleva sottrarsi alle imposizioni della propria famiglia, a un’educazione che la voleva sottomessa e merce di scambio, che le impediva di scegliere un compagno, un marito, o anche il diritto di non sposarsi, che le  vietava di conoscere e conoscersi, che la rendeva una mera proprietà in mano a un padre che poteva disporre di lei come meglio credeva, che poteva venderla o segregarla, punirla e smettere di amarla, se si fosse sottratta a ciò che una tradizione inaccettabile aveva in serbo per lei.

Saman è l’emblema di una fiducia mal riposta, di un diritto violato alla vita e alla scelta, di tutte quelle donne  che hanno avuto la forza e il coraggio di emanciparsi pagando il loro coraggio a caro prezzo.

Saman Abbas aveva diciotto anni e li aveva compiuti da poco. Quei diciotto anni, che per la maggior parte delle giovani donne e dei giovani uomini segnano un passaggio netto tra adolescenza ed età adulta, la possibilità di prendere in mano la propria vita (anche da un punto di vista legale) e le decisioni fondamentali che ne segneranno i passaggi importanti, per Saman equivalevano alla messa definitiva in catene, al concretizzarsi di un matrimonio già previsto fin quasi dalla sua nascita, che non le lasciava scampo.

Saman era nata e cresciuta in Pakistan, ma in giovanissima età si era trasferita con la famiglia (padre, madre e un fratello più piccolo) in Italia, in una paese sconosciuto della cui lingua non sapeva alcuna parola.

Ma Saman era curiosa, ambiziosa, voleva capire e imparare e, nonostante gli ostacoli linguistici e culturali, aveva superato i propri limiti socializzando come poteva con i compagni e le compagne di classe, studiandone le abitudini, invidiandone la libertà.

Quei vestiti che mettevano in evidenza giovani corpi in crescita, quei primi amori, quella spavalderia tipica dell’adolescenza, facevano a cazzotti con i suoi abiti castigati, con un matrimonio organizzato, con l’imposizione a una decenza eccessiva, a una tradizione che la vedeva come merce di scambio.

Mentre le coetanee della sua classe imparavano a conoscersi e compivano i primi passi verso un’indipendenza che sarebbe poi divenuta totale, Saman si avviava verso un percorso inverso, che più la vedeva adulta più l’avrebbe condannata a una schiavitù pratica e dell’anima.

Ma Saman ha il coraggio invidiabile e commovente di ribellarsi e concedersi il diritto di innamorarsi. Gli amori (imperdonabili per la famiglia di appartenenza) ai quali andrà incontro nonostante il pericolo e la difficoltà, saranno due, ma quello in cui riporrà tutte le proprie speranze e progetti per un futuro di libertà, sarà il secondo, che le darà il coraggio di fuggire in Belgio per una vacanza romantica, di accettare l’ospitalità presso i servizi sociali e chiudere i conti con una famiglia che non le avrebbe mai permesso una strada diversa da quella per lei tracciata e nemmeno perdonato una fuga che aveva segnato una grave macchia sulla reputazione del padre.

Saman aveva tentato il suicidio in passato, ma qualcosa, probabilmente proprio quell’amore così pronto a giurarle protezione a libertà, l’aveva convinta a tornare a sperare, a trovare la forza di compiere quei pochi, ultimi passi per volare verso un futuro già abbracciato da tutte le giovani donne come lei, quelle giovani donne figlie di un paese che non le riteneva merce di scambio, che non aveva vietato loro di continuare a studiare, che non gli aveva imposto di coprire le forme di un corpo in evoluzione, di annientare i desideri in nome di un assurdo rispetto.

Quando tutto sembrava finalmente procedere come doveva, nonostante il dolore di dover dire un addio silenzioso alla propria famiglia, di essere ripudiata e ritenuta una imperdonabile traditrice, Saman si rende conto di avere bisogno dei propri documenti di identità, sia per viaggiare che per, eventualmente, sposarsi.

Ma quei documenti, per altro scaduti, sono nelle mani del padre e lei è intenzionata a recuperarli. Inesperta in questioni legali e burocratiche, crede ingenuamente che il recupero di tali documenti sia indispensabile per potersi liberare dai vincoli che la tengono in catene, anche incoraggiata dal fidanzato Saqib, nonostante quest’ultimo conducesse una vita ben diversa e fosse perfettamente inserito nel contesto di un paese straniero in cui si muoveva in perfetta libertà.

Ciò che Saman non sapeva, purtroppo, non era solo l’irrilevanza di recuperare quei documenti per ottenerne di nuovi, ma anche che Saquib fosse in realtà già fidanzato e promesso sposo di un’altra e che, anche quando la sua relazione con Saman diverrà tristemente nota alle cronache, la priorità sarà rassicurare la fidanzata, colei con la quale era intenzionato a convolare a nozze.

Saman, ignara di tutto ciò, finge di voler tornare presso la propria famiglia, chiede perdono ai genitori e rientra presso la propria abitazione, al solo scopo di recuperare quegli inutili documenti che ne decreteranno una tremenda fine.

Nel frattempo, la ragazza continua a comunicare segretamente con Saquib. O, almeno, lei crede che tale comunicazione sia segreta, ma in realtà i genitori, tramite il fratello più piccolo, conoscono ogni sua mossa, fingono di non rendersi conto di quale sia il suo piano: recuperare i documenti e fuggire altrove, gettando vergogna su una famiglia che, tramite un matrimonio programmato, aveva intenzione di portare avanti i propri affari e interessi.

Così, una sera di aprile, le telecamere di sorveglianza dell’azienda agricola proprietaria dello stabile in cui la famiglia Abbas viveva, riprendono Saman in abiti occidentali, in scarpe da ginnastica e jeans, che si incammina insieme alla madre verso quelli che probabilmente riteneva gli ultimi passi verso la libertà, verso quel fidanzato e quel futuro a cui sentiva di avere diritto.

Saranno i suoi ultimi passi, invece. Saman sparirà nel nulla, non farà ritorno a casa né volerà verso quel futuro e quell’amore, morirà a soli diciotto anni per la grave colpa di non voler accettare di essere mera merce di scambio, un oggetto senza sentimenti e razionalità.

Quello che all’inizio sembrerà un semplice allontanamento volontario, anche grazie al tentativo della famiglia Abbas (genitori, zii e cugini, tutti residenti e operanti presso la medesima azienda agricola) di depistare gli inquirenti, si rivelerà un orrendo caso di omicidio, ai danni di una ragazza che aveva commesso l’imperdonabile scelta di andare incontro a ciò che davvero voleva.

Giammarco Menga, cronista di quarto grado che da vicino ha seguito la ricerche di Saman fino al tragico epilogo, ha scelto in punta di penna di raccontarci la sua storia e non ha scelto di farlo solo per lei, ma per tutte quelle ragazze che hanno ancora una possibilità per salvarsi, che vogliono trovare il coraggio di opporsi e auto determinarsi, ma non sanno come fare; non sanno nemmeno, probabilmente, che sia possibile e doveroso dire no, che sia loro diritto chiedersi cosa vogliono davvero.

Perché la parte più drammatica di questa triste storia, che vede sotto processo i genitori di una ragazza uccisa per mano di chi doveva amarla sopra ogni cosa, è la terribile consapevolezza che Saman, alla disperata ricerca di dare e ricevere amore, non sia in realtà mai stata amata.

Probabilmente, lo stesso Saqib l’ha ingannata, facendola tornare presso la propria famiglia nella speranza che non sarebbe più tornata libera di andarsene. Saman, che ha amato con estremo coraggio e speranza, non ha ricevuto una goccia di amore da nessuna di tutte quelle persone che avrebbero dovuto darglielo.

La libertà tanto invidiata alle proprie coetanee di vestirsi come volevano, di liberare i bellissimi capelli neri e correre incontro alla vita, è naufragata contro uno scoglio di bugie e cattiveria, contro una famiglia e un amore che la hanno solo usata e abbandonata.

I dettagli che Giammarco Menga ci regala sulla vita di Saman, sulle sue ambizioni e sulla sua tragica fine, meritano una lettura approfondita, che non sarebbe giusto né possibile riassumere in una recensione, ma che spingono verso una presa di coscienza inevitabile, per chi vive in un paese in cui la libertà di scelta è intoccabile su carta, ma inesistente in piccole comunità in cui valgono ancora vincoli e tradizioni che tengono in catene.

A fine libro, l’autore fa un tenerissimo riferimento alla propria vita privata, che è stato sicuramente un motore di spinta verso un coinvolgimento emotivo maggiore per la triste fine di una ragazza che voleva solo il diritto di essere se stessa, di non sentirsi inadeguata e sbagliata.

Tale riferimento sa di profonda comprensione non solo di una tragedia inaccettabile, all’interno di un paese civile o che dichiara di esserlo, ma anche di una cultura che verrebbe da bollare come inconcepibile e inconciliabile con il mondo che conosciamo, con i diritti che difendiamo.

Eppure, Saman e la sua storia ci dimostrano che non è così, che si può e si deve trarre il buono da ogni cultura e salvaguardarlo, che si può evolversi e amarsi anche se cresciuti con l’imposizione di non farlo, che dobbiamo aprire le porte della comprensione a chiunque faccia un timido tentativo di richiesta, come la giovanissima Saman quando, incapace di parlare in italiano, portava a scuola l’henné e lo utilizzava per decorare le mani delle compagne di classe, per essere accettata, per far parte di loro, per apprendere ma anche per insegnare.

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Giammarco Menga


reporter di Quarto Grado, ripercorre tutte le tappe fondamentali di questa terribile storia, un delitto brutale sulla cui responsabilità aleggiano dubbi e domande. Aveva diciotto anni e voleva essere libera. Dicevano di amarla. Erano la sua famiglia, ma le hanno tolto la vita. La tragica storia di Saman Abbas: gli ultimi istanti, le lunghe indagini, i risvolti processuali. Un delitto che ha sconvolto l’Italia.