Fatma Aydemir
Traduttore: Teresa Ciuffoletti
Editore: Fazi Editore
Genere: Narrativa
Pagine: 324
Anno edizione: 2025

Sinossi. Giunto all’età della pensione, Hüseyin ha finalmente realizzato il suo sogno: dopo trent’anni di duro lavoro nelle fabbriche tedesche, si è comprato un appartamento a Istanbul per farvi ritorno con la moglie. Mentre cammina lungo i corridoi dipinti di fresco assaporando l’idea di una vita nuova, però, ha un malore improvviso e muore pronunciando un nome: «Ciwan». Nei giorni successivi, la moglie e i quattro figli accorrono in Turchia per partecipare al funerale. C’è Ümit, adolescente frastornato da fantasie inconfessabili, che gioca a calcio per far piacere al padre; Sevda, la figlia maggiore, a cui non è stato concesso di studiare e che ha rifiutato un matrimonio combinato; Peri, la ribelle, studia all’Università di Francoforte, vive una vita trasgressiva e critica ferocemente i valori dei genitori; Hakan, il fratello maggiore, cerca di inventarsi un futuro, soffocato dalle aspettative riposte dai genitori sul primo figlio maschio; e infine Emine, la madre, taciturna e addolorata, parla con i parenti una lingua che i figli non hanno mai sentito e, insieme al marito, ha custodito il più terribile dei segreti per una vita intera. Un segreto che durante queste giornate verrà lentamente a galla, riaprendo ferite molto antiche e cambiando i destini dei quattro figli, combattuti tra il peso delle tradizioni e il desiderio di libertà. Incluso da «Der Spiegel» nella lista dei cento libri tedeschi più importanti degli ultimi cent’anni, Tutti i nostri segreti è un grande romanzo familiare in cui dramma e ironia si fondono perfettamente: la commovente storia di una famiglia intrappolata tra passato e presente, tra una patria perduta e sempre rimpianta, e una nuova terra mai davvero sentita propria.
Recensione
di
Loredana Gasparri
Leggo libri come questo e l’unica cosa che riesco a pensare, quando lo chiudo, è che tutti dovrebbero leggerlo. E studiarlo. E usarlo per misurare la propria vita, i pensieri, le scelte, le decisioni, le emozioni pesanti e quelle leggere.
Penso che mi abbia spezzato il cuore, e che mi abbia letto dentro con una facilità che speravo non fosse possibile e che mi spaventa parecchio. E che mi procura anche sollievo, perché se ha messo in chiaro così facilmente i punti oscuri, mi dà la possibilità di guardarli senza paura e magari farci qualcosa. Se è possibile. Se è necessario.
Penso che lo rileggerei daccapo, con maggiore attenzione, prendendo appunti e soffermandomi sui punti in cui parlava chiaramente a me di me, senza filtri e senza alcun giudizio.
Penso che il titolo originario tedesco, Dschinns, traduzione dall’arabo djinn (genio, spirito, folletto, creatura soprannaturale del folklore arabo, molto presente in opere come Le mille e una notte) aggiunga il colore giusto all’atmosfera di questo libro, che non è solo fatta di segreti. Il termine djinn identifica creature buone e malvage, a seconda della loro natura, e per metafora si usa anche per indicare i demoni personali che spesso infestano l’anima umana. E in questo libro, le infestazioni proliferano e abbondano.
La mia vicenda personale non somiglia minimamente a quella di questa famiglia di turchi emigrati e per metà nati in Germania, ma i nodi, gli scogli, le battaglie, il risentimento, qualche djinn testardo, e gli scontri nei rapporti tra genitori e figli sono in gran parte miei.
Questo è uno dei motivi per cui consiglio caldamente la lettura, lenta e soffermata, di questo romanzo; se nell’anima del lettore esistono zone ruvide o estremamente delicate che si cerca di proteggere dal contatto persino con l’aria tramite strati e strati di studiata indifferenza e dimenticanza, al buio totale, allora è necessario assumere queste 324 pagine cartacee (o digitali, a seconda dei propri gusti) ogni giorno con calma, ripetendo se necessario.
Il libro si apre con una perdita. Alla fine del capitolo, ci sentiamo anche defraudati, ingannati. Hüseyin, il capofamiglia, inizia appena ad assaporare la nuova vita che gli si apre davanti, nella sua nuova casa, nella città desiderata da sempre, Istanbul, dopo essersi lasciato alle spalle i terribili anni faticosi in Germania, contando i minuti finché non riabbraccerà l’intera famiglia che sta per raggiungerlo… e il suo cuore smette di battere.
Non abbiamo tempo di restare a compiangerlo e dire: ‘Ma che sfortuna!’, che dobbiamo passare al capitolo successivo, dedicato al figlio minore, Ümit. Ed è con lui che iniziamo a renderci conto che la vita in Germania per questa famiglia di turchi (o curdi?) è stata estremamente faticosa, onerosa.
E non solo perché i tedeschi in generale non brillavano per spirito di amicizia o accoglienza, come in genere avviene tra popolazioni ospitanti e ospiti. Non è solo la lingua da imparare ex novo, un altro clima cui adattarsi, un altro cibo, un tenore di vita basso e a tratti umiliante. C’è il senso di smarrimento che comincia a formarsi, mettere radici e a diventare più forte ogni minuto che passa, fino a pretendere di essere guardato.
Che tipo di persona vuole essere Ümit, ma anche Peri, Haikan, Sevda, in questo posto?
È giusto per loro cercare di essere integrati e più tedeschi possibile?
O non devono dimenticare mai da dove arrivano, e respingere con assoluta fermezza qualunque tipo di contaminazione li porti lontano dalle loro radici?
Hanno il permesso di guardare e coltivare i loro sogni, che in quella terra freddamente ostile si fanno sentire più forte, oppure, ancora una volta, devono fissare lo sguardo in basso, verso le loro radici?
E a proposito delle loro radici… leggendo del loro turbamento, e dei silenzi rabbiosi e delle contraddizioni evidenti soprattutto nei genitori, cominciamo a sospettare che di quelle radici, la generazione più giovane dei figli, soprattutto, non sappia molto. E non sappia le cose giuste.
Sanno di essere turchi, ma allora perché Emine, la madre, si lascia sfuggire parole di una lingua che non hanno mai sentito e non capiscono, e che li minaccia rabbiosa, quasi cattiva, se per caso manifestano curiosità o desiderio di impararla? Non si pronuncia la parola curdo, in quella casa. Mai. E soprattutto mai fuori.
Ci sono troppi silenzi, in quella casa. Tra i genitori, tra genitori e figli. I conflitti vengono smorzati sul nascere, usando tradizioni secolari e restrittive, o con il semplice ‘perché è così’ ‘perché si è sempre fatto così’.
Non si parla dei propri sentimenti, si seguono le tradizioni calpestandoli a più riprese, soprattutto se sono quelli dei figli, non ci si perde in fantasie strane che hanno il sapore proibito della deviazione che conduce alle fiamme infernali, non si dà ascolto alla spregiudicatezza occidentale che porta le donne a credersi chissà chi, a lasciare da parte la strada consolidata e accettabile del matrimonio-marito-figli-no lavoro al di fuori della casa.
Tutto questo pesa come un’intera catena montuosa sulle spalle di tutti i membri della famiglia. Soffocare i propri sentimenti e la propria personalità non è mai facile, ma farlo in un contesto lontano da quello natale, mentre si vede chiaramente che la vita è molto di più di tradizioni e dettami più o meno religiosi, e potrebbe offrire tanto, ma tanto di più, a chi si impegna ed è disposto a cambiare direzione, lo rende un supplizio lancinante.
Il risultato di vivere una vita così lacerati è piuttosto evidente nel finale. Lo leggerete e in parte potrete pensare, come ho fatto io, che non poteva essere evitato. Oppure…
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Fatma Aydemir
Nata nel 1986 a Karlsruhe, nell’ex Germania Ovest, da una famiglia di origine turco-curda, ha esordito nel 2017 con Ellbogen, romanzo vincitore del Klaus-Michael Kühne-Preis e del Franz-Hessel-Preis, successivamente adattato in una versione cinematografica.
Nel 2019 ha curato l’antologia Eure Heimatist unser Albtraum insieme a Hengameh Yaghoobifarah.
Tutti i nostri segreti, il suo secondo romanzo, pubblicato in Germania nel 2022, ha conquistato le classifiche di vendita tedesche, ha vinto il Robert-Gernhardt-Preis e il Preis der LiteraTour Nord 2023, è stato finalista al Deutscher Buchpreis, il più importante premio letterario tedesco, ed è in fase di pubblicazione in diciassette paesi. Vive a Berlino e scrive per «The Guardian».
A cura di Loredana Gasparri