Recensione di Salvatore Argiolas
Autore: Francisco Coloane
Editore: Guanda
Traduzione: Pino Cacucci
Genere: Autobiografia
Pagine: 256
Anno di pubblicazione: 2021
Sinossi. Più che da maestri e autori, Coloane si sente forgiato dai venti e dalle maree australi; più che da correnti e circoli letterari, si riconosce influenzato dalle riunioni serali intorno a un focolare in cui la gente parlava di navi stregate, di folletti e santi. La letteratura, insomma, risponde a una spinta intima, alla chiamata nostalgica e viscerale di quel mondo amatissimo che nel corso della vita lo scrittore cileno perderà e ritroverà diverse volte. Perché, da buon fuegino temprato dal lavoro nei campi e sulla coperta di una nave in condizioni climatiche proibitive, ha sempre il fagotto pronto per partire e sa che avere piedi in buone condizioni e mani grandi e forti per fare un po’ di tutto è l’unica vera garanzia di libertà. E così, Coloane condurrà quell’esistenza degna del protagonista di un romanzo d’avventura che ci racconta, ormai novantenne: in giro per mare e per terra sarà mandriano, falegname, venditore di carbone, cronista di nera e di sport, attore di teatro, attivista politico ed esiliato; vivrà in modo partecipe e doloroso il suo tempo e le tragedie del suo paese, dall’immane sterminio degli indios al colpo di stato di Pinochet, e farà questo lungo e affascinante cammino in compagnia di uomini e donne straordinari, umili e potenti, illustri e ignoti.
Recensione
“Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascorrendo gli anni popola uno spazio con immagini di provincie, di regni, di montagne, di baie, di isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto”
scrive Jorge Luis Borges nell’epilogo de “L’artefice” e questo passaggio si attaglia in modo perfetto a Francisco Coloane, il grande scrittore del Sud del mondo che nel suo viso da anziano, con la capigliatura candida e fluente e la barba bianca, evocava i mari, gli stretti, le montagne e le ferite che la sua vita da marinaio aveva solcato.
Francisco Coloane, il “grande vecchio” della letteratura sudamericana, era un cantore della terra alla fine del mondo che è la Patagonia, l’ultima frontiera moderna dell’avventura.
La Terra del Fuoco è un territorio che prima di descrivere nei suoi affascinanti libri, ha percorso in lungo ed in largo, prima come marinaio, poi come “gaucho” nelle immense distese ai bordi della Cordillera delle Ande.
Ben prima che Bruce Chatwin descrivesse quel mondo così duro ma così ricco di vitalità nel suo libro “In Patagonia”, Coloane fece conoscere lo straordinario ambiente patagonico nell’ottimo romanzo “La scia della balena” che in controluce rivela le sue esperienze nel Pacifico del Sud.
Scrittore molto lodato da Luis Sepulveda, che ha certamente ispirato per un romanzo come “Il mondo alla fine del mondo”, Francisco Coloane scriveva con uno stile asciutto e con pochi fronzoli ma molto evocativo e incisivo ed eccelleva anche nel racconto breve, come quelli contenuti nei libri
“Capo Horn” e “Terra del Fuoco”, che esaltano la durezza e l’eccezionalità di un ambiente molto particolare ma anche ricco di uomini eccezionali sempre alla ricerca della libertà degli enormi spazi solitari.
Anche la sua biografia “Una vita alla fine del mondo” è un romanzo affascinante di un uomo d’altri tempi, perché, come scrisse Pablo Neruda “per abbracciare Coloane occorrono braccia lunghe come fiumi, oppure un vortice di vento, che lo avvolga con tanto di barba. Oppure ci si può sedere per analizzare il problema, studiarlo a fondo, per finire a bere una bottiglia di vino con Francisco e rimandare la faccenda ad un’altra occasione”.
Nei suoi racconti si odono continuamente gli echi di storie narrate da balenieri seduti attorno ad un falò notturno, di indios Mapuche, di avventurieri alla ricerca di un futuro e forse solo di se stessi che percorrono incessantemente quelle terre d’incanto, di grida di gabbiani alla ricerca di cibo ma soprattutto si respira l’aria balsamica della grande avventura.
Nato nel 1910 Francisco Coloane fece in tempo a conoscere la tragica e romantica Terra del Fuoco prima che venisse rovinata in modo irreparabile dai tantissimi interessi economici e geopolitici che il territorio suscitava.
Nella sua autobiografia “Una vita alla fine del mondo” Coloane scrive chiaramente che la sua passione per la letteratura è stata coniugata dalla volontà di ricordare i tanti momenti straordinari vissuti in quell’angolo del mondo chiamato Patagonia che era la Terra Promessa che non avrebbe trovato da nessun’altra parte.
“Sono diventato scrittore per la nostalgia, per la mancanza del mare e delle mie isole e terre australi.”
La sua narrativa è stata sempre ispirata dalla realtà, come scrive nella biografia “mescolando realtà e fantasia, concatenando eventi accaduti in diverse epoche e luoghi, vivendo, sognando, osservando, ho scritto i miei libri di racconti…Forse risulta più facile inventare i fatti. Ma credo debba essere triste, per il lettore, bambino o adulto che sia, scoprire che lo hanno ingannato.”
Benché abbia vissuto per molto tempo a Santiago del Cile e anche in Cina e in India, il suo fulcro narrativo è sempre stato il territorio che Magellano chiamò Terra del Fuoco perché contraddistinto da innumerevoli falò che punteggiavano le lunghe notti australi.
La sua letteratura ha la forza e l’energia dei marinai e dei balenieri che percorrevano lo stretto di Magellano e il realismo e la drammaticità degli eventi narrati sono resi ancora più evocativi da un linguaggio semplice ma grandemente efficace che fa percepire in modo tangibile l’aria salmastra e il profumo delle foreste patagoniche.
Nei suoi racconti Coloane evidenzia in modo drammatico il massacro degli indigeni da parte dei possidenti che intendevano attuare la pulizia etnica degli antichissimi abitanti di quelle terre.
“I possidenti che introdussero l’allevamento di ovini, pagavano una sterlina per un paio di orecchie di indio ucciso. Poi dato che si vedevano in giro indios senza orecchie, il sistema cambiò: il pagamento veniva effettuato solo alla consegna di una testa intera. Le carabine degli sgherri abbattevano in massa anche la popolazione animale. I guanachi venivano cacciati a migliaia per nutrire gli invasori particolarmente avidi dei piccoli ancora in tenera età, i chulengo. La carne che avanzava, era lasciata in giro perché la mangiassero gli indigeni, dopo averla avvelenata con stricnina e arsenico. Molti morivano per questo. Lo stesso procedimento venne più tardi applicato dai latifondisti, o meglio, dai loro uomini con le pecore che morivano. Ufficialmente, per avvelenare gli uccelli rapaci, ma già che c’erano, anche i nativi, considerati al di sotto della spoecie umana.”
Questa sua accentuata coscienza civile e il suo strenuo impegno sociale lo portano al livello di Joseph Conrad che nelle sue opere ha raccontato l’orrore dello sfruttamento dell’uomo e della crisi della società contemporanea incapace di far valere la giustizia e l’eguaglianza.
“Di queste leggende e degli eventi reali di cui sono stato testimone o che mi hanno raccontato, ho parlato nella mia narrativa. Ma riassumere o esprimere integralmente l’incommensurabile tragedia di questa regione del globo è qualcosa che va al di là delle mie forze. Ci vorrebbe il genio di un Picasso per dipingerla in una Guernica di dimensioni planetarie.”
Francisco Coloane
(1910-2002) ha condotto una vita avventurosa e girovaga nelle più remote regioni meridionali del continente americano, è stato pastore e caposquadra nelle haciendas della Terra del Fuoco, ha partecipato alle ricerche petrolifere nello stretto di Magellano, ha navigato per anni a bordo di una baleniera, prima di iniziare nel 1940 l’attività di scrittore. Presso Guanda sono usciti: Capo Horn, I balenieri di Quintay, La scia della balena, I conquistatori dell’Antartide, l’autobiografia Una vita alla fine del mondo, Galápagos, la raccolta Il meglio di Francisco Coloane, Antartico e Terra del fuoco.
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