A cura di Laura Salvadori
Autore: Ian Manook
Traduttore: Maurizio Ferrara
Editore: Fazi
Genere: thriller
Pagine: 247
Anno di pubblicazione: 2018
Sinossi. Jacques Haret, autore francese di un bestseller ambientato in Brasile, arriva a Rio de Janeiro, dove è stato invitato da un editore brasiliano suo ammiratore. Alloggerà a casa sua, a Petropolis. Dormirànella stessa stanza in cui Stefan Zweig – il suo scrittore di culto – e la moglie Lotte si sono tolti la vita. Ma dietro all’invito c’è un piano ben orchestrato: presto Haret scopre che l’editore non è altri che Figueiras, un ex poliziotto conosciuto trent’anni prima durante un soggiorno di alcuni mesi nel Mato Grosso, soggiorno che, avvenuto al tempo di un’inondazione storica del Pantanal, è l’argomento del suo celebre Romanzo brasiliano, nel quale il protagonista racconta la vicenda che lo ha portato a uccidere un uomo per puro orgoglio. Di mezzo, naturalmente, c’era una donna. Haretè caduto in una trappola: Figueiras vuole solo vendicarsi. La bellezza velenosa della giungla in cui si affonda fino ad annegare; la violenza del cielo e l’umidità delle notti; l’amore che fa impazzire e morire… È per fare pace con se stesso che Haret è tornato dopo trent’anni di esilio? O è perché sente che è l’ultima volta?
Recensione
Quando non ho più niente da fare, esco nella veranda per vedere e udire la notte che invade la radura. È l’ora in cui tutto stormisce, scricchiola e schizza nella foresta e nel fiume. Tutta una vita misteriosa e vendicativa, che dovrebbe strisciare verso di me a miriadi, seppellirmi, soffocarmi e nutrirsi del mio sangue per punirmi, scivolarmi in bocca e mordermi gli occhi, pizzicarmi l’interno delle orecchie e del naso, poi lasciarmi marcire là dove è caduto Everaldo.
Il grande Manook è tornato con un romanzo crudo e intenso, dove il suo talento brilla e si esalta, tanto da non poter essere sopito, né da una trama semplice, né dall’assenza di un mistero da sciogliere.
Manook, che concede alla poesia e alla malinconia di pervadere le sue suadenti parole, sempre azzeccate, sempre precise, che vanno dritto al cuore del lettore per stregarlo, lasciandolo preda delle sue pagine intense e meravigliose. Manook che confeziona un romanzo che ti si appiccica addosso come un virus resistente a qualsiasi cura. Manook che crea personaggi attingendo a un caleidoscopico insieme di sensazioni, che con grande naturalezza si ribaltano sul lettore coinvolgendolo fino alla fine.
A un tratto, una grande luna rossa squarcia una nuvola e un improvviso singhiozzo mi soffoca. Allora piango in piedi nella veranda, di fronte alla notte, con le spalle scosse da sussulti, come ho pianto un giorni su me stesso, nei giardinetti di rua do Baixo, perché Angèle mi aveva lasciato.
Mato grosso è un romanzo sui sentimenti. È un’analisi attenta sulle cause e sulle conseguenze delle nostre azioni. Sui meccanismi, spesso sconosciuti, che determinano i nostri stati d’animo e le nostre scelte. È un romanzo sulla vendetta, che emerge in ogni personaggio, che è musa ispiratrice, che da sola muove le file di tutta la storia. La vendetta è permessa, è legittima. È la vendetta che crea l’occasione per il crimine ed è sempre la vendetta che costituisce l’epilogo della storia. Ed è infine un romanzo a senso unico, dove l’unico punto di vista possibile è quello di Haret, che parla in prima persona concentrandosi unicamente suoi propri sentimenti, senza tentare di comprendere e considerare il punto di vista degli altri personaggi.
A notte fonda, quando le lacrime si sono esaurite, resto immobile nello stridore degli insetti e nello sfrigolio delle falene che si bruciano contro i vetri cocenti delle lampade. La mia consapevolezza è di essere lontano da tutto, nel cuore della foresta.
L’ambientazione è centrale, in questo romanzo. È protagonista, in effetti, al pari di Haret.
Un Brasile immerso e avvolto nel suo clima tropicale, fatto di rigogliosa vegetazione, animali selvaggi e notti dal cielo sconfinato e solitario. Una nazione sensuale, primitiva, dal fascino velenoso, suscitato dalla bellezza selvaggia dei suoi paesaggi, trappola appiccicosa per chi si trova a vivervi. E chi vi vive finisce per essere preda della saudade, il ricordo felice di ciò che è stato, l’anima del Brasile, una forza profonda che di solito spinge a sopravvivere a ogni prova, a continuare a sperare.
Ed è quello che fa Haret, quando, in gioventù si trova a vivere per qualche tempo in Brasile. Spera, va avanti e sopravvive all’arresto della polizia federale, pur di vivere ancora una volta l’amore con Angèle, donna tentacolare, pedina inconsapevole della polizia stessa, che gli si dà senza riserve, stregandolo e annullandolo nel bisogno disperato di un amore puramente carnale e che finisce per istigarlo, seppur non direttamente, a compiere un omicidio, vittima di una gelosia insensata e totale.
Haret, trent’anni dopo, descrive questa ossessione in un romanzo, nei cui personaggi si mal celano i protagonisti del suo passato brasiliano. E questo provoca un dramma che finisce per riportare l’imprudente scrittore in Brasile, dove troverà la morte (la morte di Haret viene annunciata nella prima pagina del romanzo, per cui non svelo niente che già il lettore non sappia fin dall’inizio).
Tutta la narrazione, tuttavia, mi è apparsa quasi fine a se stessa, poiché essa è quasi un pretesto per analizzare l’evoluzione dei sentimenti di Haret: dall’iniziale esitazione di fronte alla magnificenza della natura, alla scoperta della sua estrema sensualità, alla resa dei sensi sulla ragione, per poi arrivare alla folle gelosia, alla consapevolezza di esserne in balia e infine alla genesi di un delitto che scoprirà poi inutile.
Purtroppo non ci sono parole che diano al lettore la giusta misura della grandezza di questo romanzo. Mato grosso va letto con cura, assaporando ogni frase, perdendosi nella dolcezza delle sue parole, lasciandosi cullare dall’immaginazione che è davvero fortemente sollecitata nel tentativo di concepire la grandiosità del Brasile, la sua crudeltà, la sua estrema bellezza, la sua folle influenza sui suoi abitanti, che soggiacciono alla più forte delle passioni.
A tratti si è consapevoli che non accade nulla, che la trama latita, in qualche modo. Ma è la poesia che tiene le redini dell’attenzione del lettore, che mai può venire meno perché è sedotta costantemente da un desiderio vischioso, tenero e carnale al tempo stesso.
Mato grosso è un romanzo che non si racconta. È un romanzo che va assaporato e digerito lentamente, senza fretta. Senza porsi domande ma, al contrario, lasciandosi trasportare dalla passione e dalla sensazione.
Del resto è proprio la passione che muove ogni cosa, in questo romanzo. Una passione a tratti cattiva, portatrice di scelte sbagliate e di sciagure.
Ma ognuno di noi non può che inchinarsi davanti a essa, perché essa è davvero il motore dell’animo umano e del mondo tutto!
I personaggi
In Mato grosso i personaggi hanno una duplice veste: da un lato vi sono i personaggi reali, quelli che hanno vissuto gli eventi narrati nel 1976 in Brasile; dall’altro ci sono i loro cloni romanzati, ossia i personaggi che Haret ha costruito trent’anni dopo per inserirli nel suo Romanzo Brasiliano, ma che ricalcano, in tutto e per tutto, eccetto che per il loro nome, i primi.
Ecco che abbiamo Figueiras / Santana, Blanche / Angèle, Everaldo Coelho / Everaldo Da Souza.
Senza dubbio, sono gli ultimi i protagonisti di Mato grosso. Essi sono i principi della storia ed è su di essi che Manook costruisce il romanzo.
Haret è il personaggio principale, nonché voce del romanzo. Sono le sue parole a descrivere la vicenda, narrandola con il suo unico e personale punto di vista. Haret in effetti monopolizza la storia, è l’io narrante, è il mentore e il motore della trama. I suoi sentimenti, sempre eccessivi e roboanti, determinano il ritmo del racconto. Haret è arrogante, egoista e debole. Giovane, inesperto, idealista. Non ha astuzia, è per certi versi indifeso di fronte ai suoi stessi sentimenti, che sono nuovi anche per lui, che si trova a fronteggiate una natura selvaggia e ammorbante come quella del Brasile. È con la natura, i suoi ritmi e le sue leggi che Haret combatte, senza saperlo e senza volerlo, una battaglia impari. Haret non è pronto a conoscere i vizi del Brasile e neanche a gestire i capricci della carne, una volta che si trova davanti Angèle, donna bellissima, sensuale e arrendevole, che gli si dà totalmente, con slancio e con una passione capace di tramortirlo e di annullare la sua ragione. Di fatto Angèle sarà un diavolo tentatore per Haret, il mezzo per tacitare la sua volontà e per condurlo al gesto estremo dell’omicidio, in nome di un amore che invece è solo passione carnale e mercenaria. In Haret troviamo ingenuità, rabbia e desiderio di vendetta. Il suo coinvolgimento emotivo con Angèle sarà il pretesto per farsi manipolare da un ispettore della polizia federale senza scrupoli. Haret uscirà sconfitto dalla sia battaglia, non solo nel 1976, ma anche trent’anni dopo, quando si lascerà attirare nuovamente dai tentacoli del Brasile, dove troverà la morte. Haret è dunque un uomo comandato dal furore dei suoi desideri traditi, che ha bisogno di guarire il suo amor proprio ferito, senza indugiare, né riflettere, né essere in grado di lavorare su se stesso per cercare di lenire il suo dolore primitivo e per certi versi infantile, evitando così di dirottarlo verso sentimenti ancor più temibili e pericolosi.
Angèle, motivo della gioia e del tormento di Haret, è invece una “bella senz’anima”. Non ha voce, non ha sentimenti. Il suo personaggio si limita a essere un corpo voglioso e insaziabile, senza freni né volontà sua propria. Questo è ciò che Haret fa di Angèle. Di fatto il lettore può fruire solo di questa descrizione di Angèle, che viene spogliata anche del diritto di replica. Sebbene Angèle sia un personaggio chiave del romanzo (è intorno a lei che Haret costruisce la sua apoteosi) essa non beneficia di un suo pensiero, né ha voce per darci una sua versione dei fatti. Angèle alla fine è solo una pedina, un ingranaggio di cui Santana si servirà per colpire Haret e per indurlo a uccidere Everaldo, reo anch’esso di essere complice di un prigioniero rinchiuso in carcere. In questa costruzione si legge inevitabilmente la condizione della donna di quegli anni relegata, a quanto pare, a un ruolo di amante senza verbo e senza storia.
Santana, ispettore della polizia federale, incarna il ruolo del poliziotto corrotto e arrogante. Il suo profilo è costantemente subdolo, cosciente in ogni frangente del suo potere e pronto a farlo valere per i suoi poco nobili scopi. Grande manovratore, astuto e impenitente, si beffa in più occasioni di Haret, che dal canto suo lo teme ma al tempo stesso non esita a competere con lui, ben sapendo che non potrà che uscire perdente dal confronto. Santana è il tipo d’uomo che deve dire l’ultima parola; lo dimostra il fatto che dopo molti anni saprà trascinare Haret nuovamente in Brasile con l’inganno, allo scopo di punirlo per aver reso note al mondo le vicende del passato, per mezzo del suo romanzo. Santana, minato nel fisico e stanco di vivere, avrà il merito di chiarire alcuni meccanismi al lettore e passerà il testimone al figlio, che potrà portare a termine la sua vendetta.
Ultimo personaggio di cui parlare è Everaldo Da Souza. Il suo ruolo è centrale nel romanzo: lui è l’uomo che allontana Angèle da Haret e che scatena in quest’ultimo un tumulto di sentimenti negativi che culminerà con il suo omicidio. Anche Everaldo non ha voce: il suo ruolo è quello di destabilizzare Haret, minare le sue certezze, esasperarlo perché possa essere manovrato da Santana. Everaldo tuttavia è un personaggio negativo a tutto tondo, poiché si serve di Angèle per avvicinare un suo complice, rinchiuso in un carcere che si trova attiguo all’appartamento di Angèle. Anche Everaldo di fatto è una pedina del grande manovratore Santana, come lo è Angèle. Everaldo deve scatenare la gelosia furiosa di Haret. Haret, accecato dall’odio, deve uccidere Everaldo. Sia Everaldo che Angèle vivono solo per questo scopo e usciranno di scena non appena lo scopo è raggiunto. Everaldo lascerà la scena nel modo più tragico. La morte non vedrà comunque restituita la sua dignità né riabilitata la sia figura: morirà nel sonno, senza proferire parola, dato in pasto ai coccodrilli, senza che niente sia aggiunto alla sua storia, che peraltro conosciamo solo superficialmente.
Ultimo nella lista ma primo per importanza strategica e per il suo fascino imperituro è il Brasile. Terra selvaggia, dispensatrice di grandiosi paesaggi, ricca di suggestione, subdola, pericolosa, pullulante di animali spaventosi e di uomini senza scrupoli. Senza i tramonti tropicali, le lune rosse e i profondi e neri cieli stellati del Brasile, Mato grosso perderebbe il suo fascino pericoloso e ammorbante. Quindi un plauso a questa terra selvaggia, al suo umidore brulicante di insetti, alla passione carnale che comanda i suoi abitanti, ai suoi fiori avvelenati dall’odio e dalla vendetta.
Ian Manook
Ian Manook, pseudonimo di Patrick Manoukian, è nato a Meudon, Francia, nel 1949. Giornalista ed editore, ha pubblicato il romanzo Yeruldelgger, Morte nella steppa (2016) primo capitolo di una trilogia con lo stesso protagonista al quale segue Yeruldelgger, Tempi selvaggi (2017) e Yeruldelgger, La morte nomade (2018), poi premiato con vari riconoscimenti, fra cui il Prix SNCF du polar. la serie è stata pubblicata in Italia da Fazi. Il 27 Settembre uscirà, sempre per Fazi Editore, il suo ultimo romanzo “Mato grosso”.
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