A cura
dell’autrice Kate Ducci
Elisabeth Short era una ragazza come tante, di una bellezza superiore alla media, ma con sogni e ambizioni comuni a tante giovani donne americane degli anni cinquanta: sfuggire a una vita piatta, di periferia, a un matrimonio convenzionale e un destino già scritto, per approdare a Hollywood, laddove tutto è possibile, laddove una bella donna con due splendidi occhi azzurri può uscire dall’anonimato e far battere i cuori di migliaia di uomini.
Ed era proprio questo che cercava Elisabeth, al di là del successo, oltre i soldi e l’ammirazione: l’essere amata da qualcuno, l’essere amata sul serio.
Questa quinta edizione di ‘Real Stories’ è dedicata a lei e alla perfetta descrizione dei fatti fornita da un magistrale James Ellroy che, oltre a ricostruirne la storia, riesce a regalare a Elisabeth ciò che ha cercato nel corso della sua breve vita e che nessun articolo di giornale o servizio televisivo è riuscito a donarle: affetto, comprensione, sincero interesse e, forse, una sorta di innamoramento che non trova spiegazioni logiche, non avendo l’autore mai incontrato la ragazza, ma che come tutto ciò che è mosso dai sentimenti, va ben oltre la ragione.
Sinossi. Non si muovono certo in un mondo di illusioni Lee e Dwight, poliziotti, pugili, amici. Conoscono il volto più tremendo di una Los Angeles sporca e pericolosa. Eppure il pericolo più grave per loro non arriva dalla folla di relitti umani e delinquenti che li circondano, né dalla violenza e dalla corruzione di una città crudele, né da Kay, la donna di cui entrambi sono innamorati. È un orrido delitto a sconvolgere per sempre la loro vita: il massacro di Elizabeth Short, la “Dalia Nera”, ragazza leggera, allegra,imprudente, prostituta a tempo perso. Una delle tante vittime consenzienti dello show business e soprattutto di se stessa. E quando Lee scompare misteriosamente, per Dwight le indagini si trasformano in una tremenda ossessione.
Elizabeth Ann Short, nota come La Dalia Nera (Black Dahlia) per la sua abitudine a vestirsi sempre i nero (Boston 29 luglio 1924 – Los Angeles 15 gennaio 1947) è la vittima di un noto caso di omicidio rimasto irrisolto negli Stati Uniti d’America.
Elizabeth nacque a Hyde Park, un quartiere della città di Boston e si trasferì in tenera età a Medford (Massachusetts) assieme alla madre Phoebe Mae e alle quattro sorelle, dopo che suo padre Cleo, nell’ottobre del 1930, aveva abbandonato la famiglia per trasferirsi a Vallejo, in California.
Sofferente di asma, Elizabeth (Betty per gli amici anche se lei preferiva essere chiamata Beth), passava l’estate con la famiglia a Medford e l’inverno in Florida, per curarsi.
Abbandonò presto gli studi per andare a lavorare come cameriera e, a 19 anni, decise di lasciare la madre e di andare a vivere con il padre in California, a Los Angeles.
La loro coabitazione durò poco: dopo un litigio, Elizabeth lasciò la casa e trovò lavoro a Camp Cooke, in un ufficio postale.
Andò poi a vivere a Santa Barbara, dove il 23 settembre 1943 fu arrestata per ubriachezza; per la legge californiana era ancora minorenne e fu quindi riaccompagnata dalle autorità dalla madre, a Medford.
Dopo aver lavorato per un periodo alla mensa dell’Università di Harvard, si trasferìin Florida. Qui incontrò il maggiore dell’areonautica Matthew M. Gordon Jr., all’epoca in procinto di essere trasferito al fronte.
Mentre era ricoverato in un ospedale militare in India, Gordon, che ottenne molti prestigiosi riconoscimenti durante la seconda guerra mondiale, scrisse ad Elizabeth chiedendole di sposarlo. La giovane accettò, ma Gordon morì il 10 agosto 1945 in un incidente aereo.
Betty lasciò la Florida e tornò in California nel luglio 1946 per incontrare nuovamente Gordon Fickling, una sua vecchia fiamma, Luogotenente di stanza a Long Beach, California. Durante la sua permanenza a Long Beach, fu soprannominata Dalia Nera, a causa della sua passione per il film ‘La Dalia azzurra’ e l’abitudine a vestirsi in nero.
Nell’agosto 1946, Elizabeth arrivò a Hollywood con la speranza d’entrare nel mondo dello spettacolo. L’ultima volta che fu vista viva fu la sera del 9 gennaio 1947, nel salone del Millennium Baltimore Hotel di Los Angeles, probabilmente in compagnia di un uomo.
Il 15 gennaio, il corpo di Elizabeth Short fu trovato a Leimert Park, un quartiere meridionale di Los Angeles, abbandonato in un terreno non edificato sul lato ovest del South Norton Avenue tra Coliseum Street e la West 39th Street.
Il corpo fu scoperto intorno alle 10 del mattino dalla signora Betty Bersinger, a passeggio con la figlia di tre anni. Inizialmente la signora Bersinger pensò che si trattasse di un manichino abbandonato, ma una volta capito che era un cadavere, corse alla casa più vicina e telefonò alla polizia.
Il corpo di Elizabeth Short era nudo e squarciato in due parti all’altezza della vita, mutilato e con vistosi segni di tortura; aveva i capelli tinti di rosso e le era stato lavato via accuratamente il sangue dal corpo. Il volto era mutilato da un profondo taglio da un orecchio all’altro, creando l’effetto chiamato Glasgow smile.
Il 25 gennaio, fu sepolta nel Mountain View Cemetary e non a Medford, la città da cui proveniva, per rispettare l’amore che aveva sempre dimostrato per la California. Il delitto resta tuttora irrisolto.
Molte furono le ipotesi e le speculazioni, anche sul conto della vittima. Nonostante corresse voce che fosse una prostituta per il suo atteggiamento all’apparenza ambiguo, le indagini non lo confermarono affatto.
Le indagini sul “delitto della Dalia Nera” della Polizia di Los Angeles furono fra le più vaste nella storia del Dipartimento e coinvolsero centinaia di agenti ed ispettori, perfino di altri dipartimenti. I sospettati furono centinaia e vennero ascoltate un migliaio di persone. Fortissima fu l’attenzione dell’opinione pubblica sul caso, la cui complessità fu ampliata dalla curiosità dei giornali, a causa della natura del delitto.
Secondo alcuni, le indagini non furono svolte correttamente, dato che ufficialmente non furono mai ritrovate impronte di macchine o di scarpe. La polizia non raccolse neanche le fibre nel campo. Se lo avesse fatto, avrebbe potuto trovare il numero di scarpa dell’assassino o, se fossero state trovate impronte di pneumatici, capire quali erano e cercare riscontri con le auto dei sospettati. Dell’omicidio furono accusate o si auto-accusarono almeno 60 persone, di cui la maggior parte uomini. Dai documenti ufficiali degli investigatori della Polizia di Los Angeles risultarono 22 sospettati “principali”.
James Ellroy non ha mai incontrato Elisabeth, eppure prova un forte interesse e un’umana pietà per la sua storia. Non si tratta dell’interesse morboso dei media e nemmeno di quello pettegolo e crudele dell’opinione pubblica (per i più, Elisabeth se l’era andata a cercare). L’autore voleva renderle giustizia e, forse, qualcosa che andasse oltre e che le regalasse ciò che aveva sempre cercato nel corso di un’esistenza tanto breve e intensa quanto triste: amore, di qualsiasi tipo. Che fosse per una notte, che fosse per sempre, che fosse sostituito dal successo che le avrebbe regalato il grande schermo, Elisabeth desiderava disperatamente di essere amata, per andare a colmare il vuoto lasciato da un padre assente, da una madre distratta, da una vita che prendeva i sogni in consegna al solo scopo di farli a pezzi.
James Ellroy trasmette questa sua ossessione ai due ispettori, protagonisti del romanzo. Si tratta di un’opera di fantasia, ma solo per quanto riguarda la creazione dei personaggi che si danno da fare per risolvere uno degli omicidi più efferati della storia americana. I fatti rappresentano una fedele e sincera cronaca della vita di Elisabeth, dalla sua nascita alla sua tragica morte, così come sincero è l’affetto che Ellroy e i suoi protagonisti provano per quella povera, bellissima donna, che è stata uccisa prima dalla vita e poi da uno sconosciuto.
Anche il finale è frutto della fantasia dell’autore, che regala a Elisabeth quella giustizia che in verità non ha mai avuto. Ellroy voleva che l’avesse, anche se per farlo doveva fare ricorso alla propria fantasia, prendersi una licenza che solo lui poteva sfruttare, avendo studiato a fondo la sua vita.
Perché raccontare la tragica storia di Elisabeth Short rendendola immortale, come solo il romanzo di un grandissimo autore può riuscire a fare?
Viene naturale chiederselo, soprattutto se a farlo è qualcuno che si sente inspiegabilmente e teneramente vicino a una sconosciuta che è andata incontro a una fine terribile e che, però, ne mette in piazza i segreti più nascosti, i fatti di cui si sarebbe vergognata.
È lo stesso Ellroy a rispondere a questo interrogativo, prima ancora che il lettore se lo possa porre, perché lo inserisce nell’incipit del suo romanzo. Semplicemente: Elisabeth avrebbe voluto così. Scappava dall’indifferenza sentimentale che le era stata sempre riservata e per sfuggirle era disposta a tutto, anche a sostituirla con un successo professionale che non scalda il cuore, ma distrae dall’averlo ridotto a pezzi.
Lasciare alle parole di Ellroy il compito di spiegare credo sia la cosa più giusta e, probabilmente, anche Elisabeth avrebbe voluto così:
‘Non l’ho mai conosciuta da viva. Lei, per me, esiste solo attraverso gli altri, nell’evidenza delle loro areazioni alla sua morte.
Scavando a ritroso e attenendomi ai fatti posso dire che era una ragazza triste e una puttana. Nella migliore delle ipotesi era una fallita, un’etichetta che, del resto, potrei applicare anche a me stesso.
L’avrei consegnata volentieri a una fine anonima, poche righe su un rapporto della Omicidi, una copia carbone per l’ufficio del magistrato, i formulari per la fossa comune. Ma lei non avrebbe approvato questa conclusione: avrebbe preferito rendere manifesta la sua storia in tutta la sua brutalità. Le devo molto e poiché io solo conosco i fatti per intero, tocca a me mettere per iscritto queste righe.’
A cura di
Kate Ducci (Radix)
Kate Ducci (Radix) è autrice dei thriller “Le conseguenze” “Le apparenze” e “Le identità” e dell’antologia “La verità è una bugia”, una raccolta di quattro racconti di generi che spaziano dal thriller al fantastico.