Salmo 44




Danilo Kiš


Traduttore: Manuela Orazi

Editore: Adelphi

Genere: Narrativa classica

Pagine: 135

Anno edizione: 2025


Sinossi. «Una sorta di reportage romanzesco sull’universo concentrazionario tedesco». Così, nel 1986, Danilo Kiš definì “Salmo 44”, uscito nel 1962, rimproverandosi di «certe cose dette, per mancanza di esperienza, in maniera troppo diretta». Sarebbe tuttavia ingeneroso ridurre questo testo duro e folgorante – ispirato dalla lettura di un articolo di giornale su una coppia di sopravvissuti ad Auschwitz in visita al museo del lager – ad acerba prova giovanile. Le ore spasmodiche che precedono la fuga notturna di Maria, insieme al figlio neonato Jan e alla compagna di prigionia Jeanne, dal campo di Birkenau si dilatano infatti a dismisura nel flusso caotico dei ricordi della giovane protagonista, barcollante «sul limite dell’incoscienza» negli attimi che la separano dalla salvezza o dalla fine. Attraverso quei ricordi Kiš rievoca, con una scrittura che sembra fatta di corpi tremanti, non solo l’orrore dell’Olocausto e degli esperimenti di Josef Mengele, l’improvviso apparire dei «Für Juden verboten» sulle porte dei tram, il massacro di Novi Sad, ma anche l’incontro di Maria con Jakub, l’indimenticabile attesa di lei «in piedi nel buio, immobile» con gli occhi sgranati, chiusa nell’armadio, mentre tra Jakub e il dottor Nietzsche si consuma «un duello segreto, quel gioco pericoloso in cui uno dei giocatori ha dalla sua un fante di picche con due pugnali e l’altro ha soltanto lo scudo aereo dell’azzardo e della ragione».

 Recensione

di

Marina Toniolo


‘Sei stata tu, mamma, a dirmi che tutti gli ebrei hanno la colpa della morte del Figlio di Dio; ognuno di loro ha passato almeno i chiodi – l’hai detto tu; me l’avrai ripetuto centocinquanta milioni di trilioni di trilioni di volte!’

Sulla genesi del Nazismo, sull’Olocausto, sulla pedagogia nera e sui ‘Volenterosi carnefici di Hitler’ non si finisce mai di imparare.

Ogni traccia scritta aggiunge un tassello sulla terrificante sorte degli ebrei prima e durante la Seconda Guerra Mondiale. Ogni autore, a partire da Primo Levi passando per Ka-Tzetnik 135633 – alias Yahiel Finer – porta la sua personale visione di ciò che ha vissuto o letto. In ‘Salmo 44’ Kiš prende spunto da un articolo di giornale per scrivere un breve romanzo carico di angoscia e di speranza.

Maria è pronta per la fuga, in una notte qualsiasi. Dentro una baracca di Birkenau attende assieme alla compagna Jeanne il segnale per poter scappare dall’orrore che vive quotidianamente.

Assieme a lei giace stretto in fasce umide il figlio neonato Jan e, accanto, la giovanissima Polja che muore tra sussurri e brividi. In lontananza si odono i cannoni dell’esercito alleato che avanza: questa è quindi la loro ultima occasione per non rimanere intrappolate nel lager. Nelle ore che precedono la fuga Maria si abbandona ai vari ricordi che prepotenti salgono in superficie rendendo l’attesa ancora più angosciante.

Filo narrativo è il sangue, onnipresente. Quello del parto, quello delle mestruazioni, quello che sgorga dalle vittime dei nazisti. Quello che scorre prepotente nelle vene e che unisce le generazioni con un’idea di Dio collettiva e nello stesso tempo personalissima.

Poi Jakub, medico nel campo con il quale Maria ha Jan e la speranza indefinibile di potersi ritrovare quando tutto sarà finito; Max, presenza effimera e sabotatore del lager; il dottor Nietzsche, alter ego di Mengele, che sperimenta, sterilizza e vuole conservare la sua orrida collezione personale nascondendola con l’aiuto di Jakub. Pochi personaggi, altrimenti si farebbe fatica a proseguire la lettura.

Danilo Kiš ha una scrittura diretta, semplice ed efficace resa superbamente dalla traduzione in italiano. Non abbonda nei dettagli ma qui anche il non-scritto può generare ansia. Il senso di pericolo è sottile e permea tutto il libro.

A fare capolino ma con pudore è la speranza e la vita che si rinnova in Jan. Molti sono i punti interrogativi che mi sono sorti una volta finito di leggere: Maria e Jakub riusciranno a vivere assieme?

Come crescerà un figlio nato in una baracca del lager?

Devo tenere a mente i piccoli particolari della storia per non farmi prendere dal pessimismo, come se fossi stata in un tunnel lunghissimo e buio e alla fine si intravede una luce fioca. È piccola, ma c’è.

Questo è il merito dell’autore che, a differenza di molti altri, ha osato scrivere di una vita dopo il campo di concentramento.

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Danilo Kiš


(Subotica 1935 – Parigi 1989) è stato uno scrittore iugoslavo di lingua serbo-croata. Il padre, ebreo ungherese, perì ad Auschwitz, la madre era una montenegrina ortodossa. Kiš fu battezzato secondo il rito ortodosso ed educato nel culto cattolico. Queste circostanze gli hanno permesso di elevarsi al di sopra delle divisioni etniche e religiose senza perderne la consapevolezza culturale. La sua vasta produzione, che comprende racconti, poesie, saggi, può essere letta come un’unica meditazione sulla Storia, teatro della volontà di annientamento dei vari totalitarismi. A questa storia contrappone storie personali e familiari: le uniche che appaiano dotate di senso. Si è rivelato con ‘La mansarda’ (1962, nt), un romanzo onirico concepito come un a solo di jazz. In ‘Giardino, cenere’ (1965), ‘Dolori precoci’ (1969), ‘Clessidra’ (1971) affronta il tema dello sterminio degli ebrei. La denuncia dello stalinismo è al centro di ‘Una tomba per Boris Davidovic’ (1976). Paradossalmente riconciliata con l’amore e la morte, al di là di ogni finzione e travestimento, è una delle sue ultime opere: ‘Enciclopedia dei morti’ (1983).

A cura di Marina Toniolo 

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