A tu per tu con l’autore
Tigrinus sembra un ladro gentiluomo, di solito i ladri possono essere anche assassini, ma lui evita di esserlo. Un’idea romantica che riporta alla letteratura piratesca nel quale il corsaro da disprezzato si fa quasi eroe?
In parte sì. Ma in parte il “codice etico” che caratterizza Tigrinus si ispira dalla figura di Ghino di Tacco, ladro “nobile” della tradizione medievale italiana citato da Dante e da Boccaccio. Quel che mi interessava era infondere nel mio personaggio un principio di coerenza sui generis, per dimostrare – o cercare di farlo – che si può essere furfanti e insieme avere una coscienza, se non addirittura un senso di giustizia. Ed ecco perché, pur essendo ladro, Tigrinus non mente, non uccide e rispetta le promesse fatte. Si rivolge persino a Dio, all’occorrenza, cercando di giustificare ai suoi occhi le proprie azioni. O chissà, forse di portarlo dalla propria parte.
Bianca è la diretta antagonista di Tigrinus e sembra essere il ladro al femminile senza vena romantica, al contrario ambiziosa e ingorda. A chi ti sei ispirato per inventare il suo personaggio?
A nessuno in particolare. Bianca naturalmente ha degli illustri precedenti letterari, prima fra tutti Milady de Winter, ma ha una sua peculiarità: è riuscita ad accettare il fatto di non essere una persona buona. Questa sua “emancipazione al negativo” la rende in tutto e per tutto in un personaggio noir, duttile e imprevedibile. Quando sto scrivendo di lei, non so mai che piega prenderà la storia…
Puntare i riflettori su una città diversa dalle solite Firenze, Venezia, Bologna, Ferrara che son pregne di storia, e parlare di Ravenna, che nel suo piccolo è stata importante, è servito per arricchire ancora di più il tuo romanzo di valore storico?
Parlare così di Ravenna è un po’ riduttivo. Ci stiamo riferendo a una città che fu progettata per diventare la capitale dell’Impero Romano d’Occidente e che, nel lasso nebuloso di secoli che va dal Tardoantico all’alto Medioevo, funse da ago della bilancia per le sorti dell’Europa e del Cristianesimo. È stato un privilegio, per me, poter ambientare più della metà del mio romanzo fra le sue vie labirintiche, imbevute di una storia che già nel Quattrocento doveva riecheggiare come una leggenda.
Anche se Ravenna passerà sotto lo Stato Pontificio nel 1500, il clero aveva già un notevole spazio per manovrare i propri interessi, intrighi e segreti. Com’era possibile tutta quella libertà di agire?
Grazie alla fedeltà che il clero ravennate mostrava verso il doge di Venezia. Fu quest’ultimo infatti, dopo la cacciata della signoria Polentana, a governare seppur indirettamente su questa città. Il podestà, le milizie, il vescovo e i suoi sottoposti erano legati a lui da un rapporto che andava ben oltre il mero tornaconto personale. Nel Quattrocento, sotto la spinta di teologi come il cardinal Bessarione, Ravenna cerca disperatamente di rinascere anche grazie alla Serenissima come nuova Costantinopoli dopo la distruzione della vecchia da parte dei turchi.
L’alchimia che impregna le pagine dei tuoi romanzi era una pratica decisamente seguita nel Medioevo anche da personaggi insospettabili. Perché, secondo te, c’era questa corsa ad accaparrarsi libri giudicati occulti, come la Tavola di Smeraldo o il Picatrix? Era una ricerca diciamo spirituale o si faceva per placare la sete di conoscenza o per altro?
Oggi l’uomo contemporaneo fatica a comprendere le tensioni intellettuali e spirituali che mossero l’uomo del Medioevo a cercare una chiave di volta capace di rappresentare davanti ai suoi occhi, in una summa organica, intelligibile e metasimbolica, l’essenza stessa del creato. Alludo a un metodo in grado di riassumere ogni legame tra microcosmo e macrocosmo, con tutto ciò che vi era contenuto all’interno, per coglierne ogni legame segreto e spiegarlo in modo armonico, al fine di avvicinare l’uomo a Dio. Ebbene, l’alchimia fu uno di questi metodi.
Alcune persone dicono di non leggere il romanzo storico perché troppo violento, ma la storia si legge anche sui libri di scuola ed è un susseguirsi di battaglie e guerre. Cosa puoi dire a chi forse usa questa scusa per non leggere avvenimenti che fanno parte di un importante bagaglio culturale?
Facciano quello che gli pare. Colgo molta più violenza nell’idiozia della tivù spazzatura. Francamente sono stanco di ascoltare giudizi sulla narrativa formulati da chi non legge e che, quindi, non sa di cosa sta parlando.
Distingui il genere thriller da quello storico e quindi disapprovi che i tuoi romanzi siano identificati sotto la voce thriller storico? Perché come detto sopra, la storia è un susseguirsi di eventi sanguinosi, ma rimane storia.
Esiste la Storia, e poi esistono i romanzi di ambientazione storica. Punto e basta. Lascio la prima a Jacques Le Goff, ad Aby Warburg, a Marc Bloch e a tutti i grandi studiosi che tra questo e lo scorso secolo si sono dedicati a farla risorgere dalla polvere degli archivi. Quel che faccio io riguarda la seconda categoria: che piaccia o meno, ambiento trame nel passato, senza domandarmi di continuo se sto scrivendo un thriller, un noir o un romanzo d’avventura. Lascio questo compito a chi si occupa a mettere le etichette.
Come si scrive, a parer tuo, un romanzo storico? Basta conoscere la storia e assemblare vicende?
No. Quello che dici tu non basterebbe nemmeno a scrivere un tema di storia per l’esame di maturità. Serve altro, molto altro. Lavorare a un romanzo è come seguire la melodia di una canzone. Abbandonarsi a essa, perdersi tra le note, dentro le note, è il primo passo per trovare la strada segreta che porta dalla storia all’immaginazione
Marcello Simoni
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