Intervista a Ciro Auriemma




A tu per tu con l’autore


Ciao Ciro, ti ringrazio anche a nome di ThrillerNord per aver accettato di concedere quest’intervista sul tuo romanzo “La lama e l’inchiostro”.

Qual è stata la scintilla che ti ha dato l’idea della trama di “La lama e l’inchiostro” con protagonista Miguel de Cervantes?

Il romanzo segue due diverse istanze che finiscono per fondersi, dandomi la possibilità di seguire un filo logico – una poetica, potrei dire – tra le mie scritture. La prima è quella editoriale: mi è arrivata una proposta da parte di un editore per scrivere un “giallo con protagonista Miguel de Cervantes a Cagliari”. Conoscevo il passaggio nel 1573 a Cagliari di quello che all’epoca era solo un soldato, ma che trent’anni dopo sarebbe diventato il padre del romanzo moderno. Poi con quell’editore non si è fatto nulla, ma la storia mi è rimasta ed è rimasta lì a decantare. La seconda istanza, più personale – ma non per questo non universale – era provare a fare il punto del mio rapporto con miei figli, soprattutto il maggiore, e mio padre. Dico soprattutto il maggiore perché è un adulto che vive da solo a Roma. Ecco, questa è una storia di avventura, ma è anche una storia di padri e figli, di un padre che prova a dire “guardami per come sono, per la mia storia umana, senza giudizi e pregiudizi. Non pretendo la tua comprensione per ogni mio gesto, ma accettami così” e dall’altra un figlio che risponde “ora ti vedo”. Ecco, io sto proprio nel mezzo di questa geografia e provo, prima che accada come per Pablito di doverlo fare in hore mortis, di tessere questo nuovo dialogo. A partire da questo libro.

Cervantes è uno scrittore ancora attuale?

Lo è, eccome! Nel suo elogio della cultura come uscita dal quotidiano, e della “follia” prodotta dalla lettura di troppi libri come strumento, lucido, tagliante, reale, di mettere sotto scacco il vero. Abbiamo bisogno di fantasia, di leggere tanti, tantissimi libri perché lì si nascondono le risposte alle domande che sempre e da sempre ci facciamo. Ed è questa rivincita dell’immaginazione, la trasformazione della vita in opera letteraria – e dunque la vita che si fa essa stessa letteratura potente e prepotente – che ritroviamo la attualissima grandezza del Chisciotte.

La lama e l’inchiostro” è ambientato a Caller (Cagliari) nel 1573. E’ stato impegnativo trovare le giuste fonti storiche per creare uno scenario attendibile?

In realtà no. Non ho alcuna velleità di aver scritto un romanzo storico, mi sono sempre professato con un certo orgoglio un narratore. Lascio agli storici il loro mestiere, io per mestiere invento. E certo, devo mischiare verosimile e vero, ma il primo è molto più importante del secondo che, invece, è quasi marginale. E dunque: non vi sono segrete nel castello di San Michele, per esempio… ma nel mio romanzo ci sono, perché mi servivano. Ho letto saggi e romanzi ambientati nella stessa epoca, ma poi ho cercato di usare quel materiale solo per ricostruire l’atmosfera, e dare al lettore la sensazione di vivere quell’avventura…

Pablo Sanchez, anche se ha il nome spagnolo è il tipico “bastasciu” cagliaritano e il fatto che non “sia farina per fare ostie” mi ha molto divertito. Oltre al chiaro modello dello scudiero di don Chisciotte hai avuto ispirazione dai “picciocchedus de crobi” della vecchia Cagliari?

Sono un uomo che è stato bambino a San Michele ed è vissuto con i racconti della città. Quindi in parte sì, anche se Pablito è decisamente più fortunato, perché il padre è ricco (e avaro!) mercante di stoffe. Mi piaceva più che altro la possibilità di costruire un duo di “difettosi”: lo storpio, il monco Saavedra, e il grasso balbuziente “Gordo” Pablo Sanchez. Ironia della sorte, saranno proprio i difettosi, gli sbagliati ad aver ragione sul potere e l’ingiustizia. A caro prezzo, perché nulla di quel che ci arriva è gratuito.

E’ stato difficile inserire un personaggio storico in una trama ambientata in un contesto particolare come quello cagliaritano del sedicesimo secolo?

Ho dovuto smettere di avere timore reverenziale, e dunque smettere di pensare a Cervantes come al grande autore che tanto mi aveva fatto viaggiare con la fantasia, e a cui riconosco di avermi insegnato che ci si deve battere ancor più convintamente quando si ha la certezza che la battaglia sarà impari, o invincibile. Se abbiamo la certezza di difendere delle ragioni insindacabili, abbiamo tutto quel che ci serve. È un modo che sento molto mio di stare al mondo.

Il tuo libro orbita attorno al concetto di verità, dove bisogna scegliere quella vera e quella che viene fatta credere. E’ una lettura corretta?

Ti ringrazio per averla colta. Viviamo in tempo troppo veloci, in cui conta avere un’opinione su tutto, e questa opinione si eleva a verità ontologica. Non c’è spazio per il silenzio e la riflessione, e il giorno dopo il vero gridato alla televisione o sui social si sgonfia, diventa più sfumato, diventa plausibile, si riempie di forse, mi pare… ma c’è una nuova verità su cui esprimere le proprie certezze. La verità nel libro la si conquista a poco a poco e con fatica. E fa paura, chiamarla verità, perché è comunque mediata dal nostro modo di stare al mondo. Dunque è folle, ti chiedo, l’ingegnoso hidalgo Chisciotte? È folle Alonso Chisciano? Ed è folle Miguel de Cervantes, nella vita come nella mia immaginazione?

Hai previsto un sequel di “La lama e l’inchiostro”?

Io sì, ma dipenderà dai lettori. L’editoria è un’industria e ha le sue regole, e un libro per avere un seguito deve avere un pubblico: se i lettori reputeranno che Miguel e Pablito meritino altre avventure, io sarò felice di scriverle.

Tu nasci come scrittore di noir, partecipando, con tanti talenti narrativi, al collettivo “Mama Sabot”. Che differenza c’è dal punto di vista proprio dell’impostazione, tra lo scrivere un noir e un romanzo storico, anche se ha un impianto noir anche “La lama e l’inchiostro”?

Da un punto di vista tecnico non mi sono mai spostato molto. Ricordo che Patrick Raynal quando fu nominato direttore editoriale della “Série Noire” di Gallimard decise di pubblicare l’Edipo Re. Che cos’è il noir, dovremmo domandarci. È indubbiamente un tono – oggi ahimè abusato e violentato – con cui si guarda l’abisso. Il noir è lo sguardo criminale sulla vicenda, il suo punto di vista, ma anche e soprattutto resta la caduta agli inferi di una persona. È, a mio avviso, soprattutto un modo di scardinare la visione borghese ed estremamente consolatoria del giallo, che ci racconta di una società sana con qualche mela marcia. Il noir ci dice che il problema è il contenitore, poiché ognuno di noi è abitato da un angelo e da un demone perennemente in conflitto tra loro. Seguire questo sguardo sulla mia scrittura mi ha consentito di mutare, mimetizzarmi, restando comunque fedele a me stesso.

A proposito di “Mama Sabot” puoi dirci qual è stato l’impatto di questo vero e proprio incubatore narrativo nella scena letteraria sarda?

È stato dirompente. Come forma e come sostanza. La possibilità di creare non solo un incubatore, una fucina, ma uno spazio di riflessione e di elaborazione attorno al genere che è riverberato fino a oggi. Sarebbe ingeneroso non guardare a quell’esperienza come qualcosa che ha costruito, anche per chi è venuto dopo, una teorizzazione sull’evoluzione del genere che latitava.

Anche la Sardegna sta sfornando ottimi giallisti. Quali sono i romanzi che consigli a chi volesse conoscere la produzione isolana di gialli e noir?

Uh, domanda delle cento pistole. Il rischio è sempre quello di lasciare qualcuno fuori. Ti posso dire che cosa mi piace, mi è piaciuto, che guardo con interesse? Le indagini di Efisio Marini, del compianto Giorgio Todde; i noir di Marcello Fois sui quali mi sono formato; la penna di Francesco Abate, sempre sospesa tra ironia e tragedia e quella di Eleonora Carta, capace di scavare nell’abisso della psicologia umana. Mannuzzu e Angioni, tra gli altri, per ricostruire il percorso del giallo sardo. Voci diverse, tutte imprescindibili. Non cito per ovvie ragioni di opportunità autori con cui ho lavorato o lavoro (collaboro in qualità di editor con l’Agenzia Letteraria Kalama, che rappresenta diversi giallisti sardi!), mi sembrerebbe una caduta di stile. Insomma, mi hai messo in un bel pasticcio!

Cagliari è ed è sempre stata una città noir?

Cagliari è una città sospesa tra una luce perfetta e una perfetta tragedia, come tutte le città che si affacciano sul Mediterraneo. La tragedia ci ha formati, ha plasmato la nostra cultura, il nostro modo di elaborare le storie, il racconto e dunque le cose, perché le cose esistono davvero nel momento in cui possiamo dare loro un nome, e tanto più questo è capace di descriverle tanto più la parola è immanente. È una città in cui succede tutto senza che si veda nulla, ed è questo il suo specifico. Raccontare della violenza delle periferie cagliaritane, inventare una malavita che è pervasiva, è possibile, ed è diritto dell’autore farlo. Siamo pagati per mentire e per farlo bene. Ma non è questo che mi interessa. Mi interessa più raccontare le cose che ci volano alte sulla testa, e dunque governatori che vengono comandati a gestire questa “periferia dell’impero” dalla capitale, e che lo fanno incuranti delle specificità di questa terra, in perenne lotta con il potere locale. E in queste mareggiate, spesso, si infilano nuovi poteri… e non sono sicuro se quello di cui sto parlando sia il 1573 o il 2023.

Ciro ti ringrazio per le riposte facendoti i complimenti per l’avvincente “La lama e l’inchiostro”.

A cura di Salvatore Argiolas

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