Intervista a Mario Barale




A tu per tu con l’autore


Leonardo Santeri è postino nella vita ma investigatore dilettante per hobby, perché curioso ma anche perché non ce la fa a stare con le mani in mano quando c’è un torto da riparare. Come lo hai conosciuto? Vuoi raccontarcelo un po’? Ti somiglia un pochino?

Buongiorno a tutti, già dalla prima domanda deduco che sarà un’intervista fuori dagli schemi, e questo non può che essere stimolante, molto bene. Vuoi sapere come ho conosciuto Leo Santeri? Più che come ti dico dove l’ho conosciuto: noi due ci siamo incontrati all’ufficio di collocamento per personaggi, un posto nascosto nei labirinti dell’immaginazione che ogni scrittore frequenta tra una parola e l’altra, spesso senza rendersene conto. Leo era lì, con la polvere sulla borsa della corrispondenza, seduto in un angolino da tempo immemore in compagnia di altri due o tre personaggi non belli e non invincibili, tutta gente vera, come lui. A quanto pare tipi del genere non vanno molto di moda, ma io invece ne cercavo uno proprio così, con un lavoro normale (ma non troppo), che mi consentisse di farlo muovere sulla scacchiera in modo inconsueto, infrangendo le regole del gioco. Chi meglio di un postino può riuscirci? Pensaci un attimo: un postino è una persona pagata per andare in giro, stare a contato con tutti, con due occhi che diventano mille e la sensibilità di capire le cose che succedono intorno a lui (anche) semplicemente sulla base di quello che consegna. Un postino è come un prete senza confessionale o un barbiere senza sedia, perché è uno che di quello che capita in giro ne sa quanto loro, ma ha il vantaggio di potersi muovere molto di più. Al personaggio base “assunto con contratto a tempo indeterminato” ho aggiunto qualche tocco personale, non lo nego, anche se sono una persona a rilascio lento in queste cose, ci vorrà tempo per conoscerlo a fondo. Leo è tutto quello che hai detto, una persona di grande intuito, divertente, un curioso al quadrato incapace di sopportare ingiustizie o soprusi, soprattutto se vanno a toccare la cerchia delle sue amicizie. Ora non saprei che altro aggiungere, non ho scritto abbastanza per raccontare più di questo. Personalità work in progress.

Accanto a un uomo così, che talvolta sprezzante del pericolo rischia sul serio di farsi male, non poteva che trovarsi una donna di un certo carattere, previdente, paziente ma anche accorta: “Grande donna Lucia, molto lungimirante… “Tacere con lui stava incominciando a diventare una spiacevole abitudine.”. Puoi dirci se Lucia nasce da un miscuglio di conoscenze o se hai avuto la possibilità di incontrare dal vero un’unica figura così?

Lucia è un personaggio che devo ancora sviluppare adeguatamente per tirarla fuori dal limbo letterario in cui vaga. Sicuramente è molto di più di quella presenza silenziosa che sopporta le scappatelle da finto poliziotto di suo marito: provate ad immaginare il suo dramma interiore, ossia vivere con una persona che conduce (alla luce del giorno) un’esistenza parallela tutta sua, misteriosa, che lo porta a cacciarsi nei guai e trascurarti. Se almeno un simile gentiluomo avesse (come tanti) un’amante in carne ed ossa sarebbe facile andare ad aspettarla sotto casa con una padella in mano ancora calda delle legnate assestate a lui e farsi giustizia. Il problema è se invece lui se la fila con i carabinieri e va in giro a cercare rogne rimestando delitti morti e sepolti. In casi del genere tu con chi te la puoi prendere? Meno male che c’è l’affogato all’amarena, per frenare l’ansia (leggere per capire). 

Una “Lucia” vera in tutto e per tutto uguale a lei non l’ho mai conosciuta, diciamo che nel libro ho incominciato a tratteggiare un personaggio “patchwork” di mie amicizie femminili. Allo stato attuale la mia Lucia è ancora relegata un po’ in secondo piano, ma col tempo mi piacerebbe farne una figura più attiva, completando così il triangolo postino/carabiniere/moglie (che li menerebbe entrambi di santa ragione, se solo potesse).

Il Capitano Razza è apparso da subito molto interessante. Lui e Leo non si sopportano ma hanno, di fatto, la stessa moralità, lo stesso principio di giustizia e onestà che li spinge ad agire, solo che, ovviamente, il carabiniere non può lasciare carta bianco al postino, sia perché impiccione, sia perché spesso a caccia di pericoli. Come ci seri arrivato a questa figura?

La figura del Capitano Razza era indispensabile nell’economia del romanzo, perché ovviamente in una indagine che va a toccare fatti di cronaca nera (e personaggi poco raccomandabili) un semplice postino non avrebbe “la capacità di fuoco” necessaria a vincere la guerra, sia da un punto di vista organizzativo che per mancanza di mezzi, armi e distintivo. In passato ho già affrontato il tema della strana coppia cittadino/sbirro e mi sono sempre divertito molto. Due mondi tanto diversi quando si incontrano sullo stesso campo di battaglia non possono che generare situazioni scoppiettanti, paradossali e talvolta anche buffe. Nel rapporto di stima, “amore” e odio che li lega indissolubilmente una delle cose importanti è proprio questa, il riuscire a trovare dei punti in comune anche tra idee diametralmente opposte, e il saperne sovente (sor)ridere insieme. Scrivere un romanzo di cento pagine di delitti e tensione ucciderebbe autore e lettore, saper dosare spaventi e momenti più leggeri è fondamentale. Una ca**ata non ha mai ucciso nessuno.

Uno dei leganti della storia sarà il campionato di calcio 1987/1988 e solo leggendo, si arriverà a capire come mai questo salto temporale nei ricordi ma ti chiedo, in generale, a te cosa ha lasciato quella specifica annata, per decidere di raccontarla proprio nel tuo romanzo? Perché poi proprio l’associazione fra collezionismo di figurine e delitto? Sei un grande tifoso?

Non ho nessun motivo personale che mi abbia portato a scegliere quello specifico campionato, se non appunto l’andare a ritroso nel tempo rispetto all’anno in cui si svolge l’indagine di Leo. Una specie di domino, ogni casella andava incastrata al posto giusto. Tutto doveva avere inizio nel campo minato della preadolescenza di un gruppo di ragazzi, divisi tra l’essere ancora bambini amanti di calcio (e figurine, appunto) e l’aver fretta di crescere, magari nel peggiore dei modi possibili. Il romanzo è nato per caso, perché mi piaceva l’idea di un delitto legato ad uno specifico ricordo d’infanzia, anche se il tema del calcio non rientra nelle mie passioni, così come il collezionismo di figurine. Non sono mai stato un tifoso, mai avuto una sciarpa o un abbonamento allo stadio. Mi considero un italiano atipico, totalmente ignorante in materia. A memoria avrò visto tre o quattro partite una trentina abbondante di anni fa, giusto per uscire con gli amici la domenica. Mi definisco un simpatizzante granata, ma non vado oltre a questo. Il problema grosso per me è stato proprio lo scrivere di calciatori quando non ne capivo un fico secco, e meno male che c’è la rete (detto così sembra un gioco di parole col calcio…), che mi ha consentito di documentarmi per evitare di sbagliare qualche nome, campionato o maglia. Hai presente il putiferio se avessi scritto che Tizio quell’anno lì giocava con quella maglia là e poi l’avesse letto la persona giusta (ahimè) sbagliata?

Un personaggio, ad un certo punto arriva ad una riflessione non da poco: “Ogni amicizia, anche la migliore, ha i suoi limiti.”. Puoi spiegarci, senza entrare proprio nello specifico del romanzo per non rovinarne la lettura a chi ancora deve conoscerti, il senso di questo pensiero e che cosa ne pensa anche Mario la persona, non lo scrittore?

Tralasciando le (pur spesso bellissime e profonde) amicizie virtuali generate dai social, ma parlando di cose serie (sedersi a tavola a spianare qualcosa di saporito ridendo e scherzando guardandosi in faccia) sono uno da poche amicizie, ma che faccio invecchiare. A volte succede si inciampare in qualcosa, negli anni, tra amici. I “suoi limiti” arrivano in quel momento, quando metti sul piatto della bilancia quello che è stato e quello che sta succedendo, e cerchi di valutare in modo sereno le cose, per capire se abbia senso buttare tutto alle ortiche. A me qualche volta è successo, e non è stato piacevole, anche se le ferite col tempo si rimarginano. Lo scrittore in questo caso, forse inconsciamente ha trasposto in parole riadattandole alle necessità del testo quelli che sono stati alcuni momenti opachi di Mario. Ecco fatto, ho detto tutto senza dire niente, posso entrare in politica, direi. Esame superato.

Mai verità fu più saggia, secondo me, e concordo con chi nel tuo libro afferma questo: “Ormai tutto viaggia così, parole, messaggini… ci siamo dimenticati che cosa sia guardarci in faccia quando ci parliamo…”. Siamo tutti dipendenti da una minuscola tastiera posizionata su un altrettanto minuscolo display e quando dobbiamo dire una cosa, la scriviamo invece che guardarci negli occhi. Che rapporto hai con la tecnologia?

Il rapporto di un appartenente alla generazione X, come si dice oggi. A cinquantasette anni suonati tra casa e lavoro mi devo destreggiare (mio malgrado) tra troppi dispositivi elettronici, dispensando spesso parole (non ripetibili in questa sede) all’indirizzo di computer, telefonini e di chi se li è inventati. La tecnologia è troppo veloce per i miei gusti, e anche il portatile -ormai vecchiotto- su cui sto battendo i tasti rigorosamente con un dito per mano lo considero una semplice macchina da scrivere (ora che lo sa si pianterà di brutto, mi sa…) senza bianchetto e nastro. Tutto è un clic, un tasto da premere o sfiorare, tutto è touch, virtuale, impalpabile. In queste cose sono rimasto un romantico, a me piaceva scrivere lunghe lettere a manina e poi c’era il piacere dell’aspettare intere settimane, quella sofferenza che rendeva tutto magico. Adesso ci sono due spunte blu, e se non appaiono entro cinque secondi già sbuffiamo. Che tristezza. Una sera di quest’estate, passeggiando sul lungomare mi sono guardato intorno. Ragazzi seduti ai tavoli dei locali, in silenzio, ognuno con la testa abbassata sul proprio piccolo rettangolino luminoso, in rigoroso silenzio, intenti a vivere altrove. Dove andremo a finire… ci riprodurremo in virtuale? L’unica tecnologia che apprezzo veramente è l’alta fedeltà, da amante della buona musica. Ma lì oltre certi livelli son dolori per altri motivi. A tal proposito non sarebbe comunque male pensare ad una guida ragionata musicale per la lettura, proponendo i pezzi che chi scrive ha legato alle atmosfere del testo e del momento, per entrare più a fondo nel mood del racconto. Un cammino tra le parole con colonna sonora, vampiri SIAE permettendo.

Nell’era delle trasmissioni di true crime e dell’informazione che vola alla velocità di un click questo pensiero è terribilmente vero e attuale: “La violenza genera assuefazione, dopo tre delitti il quarto non fa notizia, e tutti lo dimenticano in fretta.”. Puoi dirci un tuo pensiero a riguardo? Come ti poni dinnanzi a questo tipo di informazione martellante?

Purtroppo ascoltare un telegiornale durante la cena è quanto di più devastante esista, un continuo sovrascrivere la bruttura del giorno sulle precedenti, che arretrano gradualmente nella scaletta fino a scomparire. Guerre, terremoti, omicidi, violenza. Pensavate che quello che è successo ieri a Vattelapesca fosse tremendo? Sentite qua cosa è capitato a Suppergiù. Il discorso vale per qualsiasi cosa, fino a creare un archivio mentale che di pari passo incamera e dimentica, anche solo per una questione di sopravvivenza. Il sovraccarico è una brutta bestia da gestire, poi. 

Libro Frilli significa anche luogo, per cui ti chiedo come mai hai deciso di ambientare la tua storia proprio sulle rive del lago di Orta? Cosa rappresentano per te quelle zone?

Tutto è figlio del regolamento di Ceresio in giallo, che richiede che le storie siano ambientate in località lacustri: il primo parto letterario di Leo Santeri (“Olio su terra”, un racconto breve facente parte di Laghi & delitti 2020) è stato ambientato lì e poi (visto che il personaggio mi piaceva ed era già bello e che inventato, perché mai ricominciare da capo con uno nuovo?) ho deciso di rimetterlo in gioco, e di conseguenza non ha più cambiato casa. Il lago d’Orta per me è semplicemente un posto che ho visitato più volte e trovo di una bellezza silenziosa e affascinante, una location solo apparentemente idilliaca e tranquilla per le mie storie. Non avevo mai ambientato nessuna storia sulle rive di un lago, ma ora ci sto prendendo gusto, il mare non fa per me.

So che hai già nuove idee che premono per uscire e altre che sono lì che aspettano d farsi revisionare, vuoi farci solo, a grandi linee, un accenno sul genere?

In questo momento ho un lavoro pronto da accasare, qualcosa di distante dal noir di Leo Santeri. Il mondo di parole in cui mi piace sguazzare abitualmente è decisamente più oscuro e imparentato con l’irrazionale, a livello di genere potrei definirlo thriller paranormale, visto che coniuga omicidi apparentemente ordinari a risvolti decisamente over. Partendo da questi presupposti posso dichiarare senza problemi che la sfida di scrivere un giallo restando coi piedi per terra in questo mondo è stata abbastanza impegnativa, per me. Su Santeri ho cose in giro per il frullatore, ma non mi pronuncio oltre. Finché c’è posta c’è speranza.

Visto che tu, oltre a scrivere libri curi anche la parte grafica dei tuoi “bimbi”, puoi dirci cosa si prova nel vedere la versione completa di un qualcosa che hai contribuito a realizzare in modo più completo di altri, avendo la possibilità di lasciargli una tua impronta anche dal punto di vista visivo?

Un libro con la copertina anonima può permetterselo solo uno scrittore affermato, lì basta il nome per vendere, per tutti gli altri l’imperativo è colpire l’attenzione di chi vede il libro. Se la copertina fa bene il suo lavoro la metà del lavoro è fatto, il lettore prende in mano il libro e legge la quarta di copertina, che si gioca l’altra metà della sfida. Le due fasi fondamentali sono queste, tutto lì deve essere perfetto: attirare l’attenzione con l’immagine e confermare la buona impressione con le parole. Al momento mi ritengo molto fortunato, perché (antologie a parte) le copertine di tutti i cinque libri che ho pubblicato portano la mia firma. Non sono un illustratore professionista ma credo che nessuno come chi ha scritto un libro sia in grado di saperne restituire l’essenza attraverso una sola immagine, ma non ti dico quanti bozzetti “costa” spesso l’idea buona. La cosa buffa è che comunque a conti fatti disegno da cinquant’anni e scrivo da dodici, quindi non sono uno scrittore che si illustra le proprie copertine, ma un illustratore che le racconta.

In merito alla lettura, ne abbiamo già parlato e mi hai detto che nell’ultimo periodo ti ritrovi ad avere meno tempo per leggere a seguito della mole di impegni fra lavoro e scrittura ma comunque, immagino tu abbia dei nomi di autori a te cari. Vuoi dircene qualcuno?

In effetti leggo pochissimo, per ovvi motivi, anche se vivo praticamente in un magazzino di libri (illustrati e non) fumetti, dischi e varie umanità. Le letture che mi hanno scavato dentro sono tante, posso citarti due libri di Angela Carter (La camera di sangue e La passione della nuova Eva), due di Cormac Mc Carthy (La strada e Figlio di Dio), qualcosa di King (Carrie e La zona morta su tutti) e poi Il signore delle mosche di William Golding, L’uomo che cadde sulla terra di Valter Tevis, L’inquilino del terzo piano di Topor (e relativi film), e poi i racconti di HP Lovecraft, Poe. A questo aggiungo la parte visiva, che traspare a volte nei miei disegni, con autori come Dino Battaglia, Alberto ed Enrique Breccia, Barry Windsor-Smith, HR Giger, Roger Dean, Moebius, Frank Frazetta, tutti colossi di matita, aerografo e pennelli. Buona lettura a chi vorrà saperne di più, con affrancatura a carico del destinaMario.

Da parte mia e di tutta la redazione di Thrillernord ti dico grazie per la tua disponibilità.

Loredana Cescutti

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