Il testamento dell’uro




Recensione di Laura Salvadori


Autore: Stephanie Hochet

Editore: Voland srl

Traduzione: Roberto Lana

Genere: narrativa

Pagine: 160

Anno di pubblicazione: 2019

Sinossi. Una giovane scrittrice accetta di andare a presentare i suoi libri a un festival letterario nel sud della Francia, dove incontra una serie di bizzarri personaggi. L’atmosfera vagamente inquietante del paese si coagula soprattutto attorno a Vincent Charnot, il sindaco, che si rivela una sorta di guru, un visionario intenzionato a lasciare un segno alla posterità dedicandosi a progetti culturali trasgressivi. A questo scopo offre alla scrittrice un incarico a dir poco strano: redigere la “biografia” di una specie estinta da secoli, l’uro, l’animale preistorico che aveva affascinato persino i nazisti, al punto da spingerli a tentare di riportarlo in vita. Convinta dall’abile e carismatico sindaco e dagli esemplari di uro che le è stato permesso di vedere in segreto, la donna inizia a scrivere, trovandosi ben presto coinvolta in una cospirazione che si tinge sempre più di nero.

Recensione

Si legge velocemente questo nuovo romanzo di Stéphanie Hochet ma non si può dire che si metabolizzi altrettanto velocemente per i temi che affronta.

La storia, che mescola realtà e mito, si snoda in modo fluido all’inizio, quando, con una certa dose di umorismo e leggerezza, l’autrice ci presenta la protagonista, una giovane scrittrice, ancora lungi dall’aver trovato la propria consacrazione come artista, che si trova nella condizione di dover accettare qualsivoglia proposta che possa dar lustro alla sua opera. Nel prosieguo, tuttavia, la storia assume tinte ben più fosche e percepiamo la sensazione di precipitare in un  noir, dove mistero, mito e suspense sono sempre più marcati, tanto da disorientare il lettore.

La protagonista accetta di partecipare ad un tour letterario giusto per racimolare un po’ di soldi e per non perdere la debole speranza di poter vivere, un giorno, con i frutti della sua nobile arte. Il suo atteggiamento si mostra ben consapevole che questo ennesimo tentativo non potrà cambiare la sua carriera di scrittrice (bisogna essere un po’ ingenui per credere che nel mestiere di scrittore si celi un che di romantico. Eppure, senza questa convinzione ideale, chi avrebbe il coraggio – o l’incoscienza – di volersi guadagnare da vivere scrivendo?

Essere scrittori è spesso una formula magica per chi voglia prolungare il periodo dell’infanzia artificialmente separato dal sistema economico) ma non può rifiutare di continuare ad alimentare la debole fiamma della speranza.

Si ritrova così suo malgrado in un improbabile paesino immerso nella campagna della Francia meridionale, in luoghi incantevoli ma anche incantati, dove tutto sembra lontano dal reale. Personaggi improbabili le ruotano intorno, confondendola, complice anche il buon vino del sud. La malcapitata scrittrice si ritroverà a passare i suoi giorni segregata nella casa di campagna di due individui un po’ sopra le righe, invischiata nella promessa di scrivere un racconto che inneggi alla resurrezione di un animale preistorico, incalzata da un sedicente sindaco, amante della caccia e del Medioevo, con una macabra inclinazione verso la tassidermia e il vanto di aver messo in piedi un museo di animali imbalsamati. La scrittrice con sua somma sorpresa, deciderà di assecondare le mire   folli del sindaco della cittadina. Studierà l’uro, un animale preistorico simbolo di virilità e di superiorità sull’uomo, che ha preferito estinguersi piuttosto che farsi addomesticare e che dovrà risorgere (e risorgerà) per sottolineare e rendere evidente al mondo la natura animale dell’uomo, la sua istintività, il suo lato incontrollabile, il furore dei sentimenti, il mistero dei sensi, la lotta primitiva che si percepisce nei boschi quando si può uccidere o essere uccisi.

Dopo un primo periodo in cui la scrittrice si sentirà un tutt’uno con l’opera che deve scrivere, arriverà per lei la consapevolezza di essere stata solo un mezzo per affermare l’ego del sindaco. Un finale amaro sarà, dunque, inevitabile, condito con la consapevolezza di aver commesso un  grave errore di valutazione.

La storia in sé è dunque semplice e segue un modello già visto: l’inganno travestito da buona occasione, che si ritorce su chi è stato così sciocco da farsi facilmente ingannare.

L’autrice utilizza un linguaggio fluido e piacevole e i toni subiscono una metamorfosi nel corso del romanzo: vi si percepisce un’angoscia crescente che culmina con un senso di estraneità e di follia. L’immaginazione non è certo una dote che manca alla Hochet!

E’ ovvio che il romanzo è tutt’altro e che è, forse, aperto a più di una interpretazione. Il richiamo alla Germania hitleriana non è forse casuale e potrebbe portarci alla necessaria negazione dell’idea totalitaria. Ma fa capolino in me anche l’eterna contrapposizione tra istinto e ragione, il primo simboleggiato dall’animale, il secondo dall’uomo. Se questo è vero, è altrettanto chiaro che nel romanzo è la ragione a soccombere, mentre l’ideale dell’istinto predatorio, della figura dell’animale dominante, vince su tutto.

Il messaggio che traggo allora non può essere che questo: l’uomo ha dominato il mondo con la sua intelligenza ma non è riuscito a creare niente di duraturo, né di assoluto. L’uomo ha affidato al mito le risposte ai suoi perché esistenziali, che forse ancora oggi non ha trovato, né mai troverà. L’animale, invece, ha rinunciato da subìto a comprendere la chiave della vita; l’animale ha trovato nel suo istinto primordiale la sua unica ragione, rinunciando all’egemonia a discapito dell’uomo ma mantenendo salda l’integrità che l’uomo ha perso.

Queste le mie personali conclusioni su questo romanzo, che fa del simbolismo la sua chiave di lettura. Aspetto con ansia le vostre considerazioni!

Buona lettura!

Stéphanie Hochet


Nata a Parigi nel 1975, ha esordito nel 2001. Autrice di undici romanzi e un saggio letterario, ha ricevuto il Prix Lilas (2009), il Thyde Monnier de la Société des Gens de Lettres (2010), e più di recente, nel 2017, il Prix Printemps du roman. Ha curato una rubrica per “Le Magazine des Livres” e collaborato con “Libération”. Attualmente scrive per il settimanale “Le Jeudi”.

 

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