Intervista a Cosimo Buccarella




A tu per tu con l’autore


Buongiorno Cosimo, grazie per l’attenzione che dedichi a me e ai lettori di Thrillernord.  Ho avuto la fortuna di poter leggere ‘I fuoriposto’ ed è un romanzo che mi ha colpita per la vivacità sia della storia che dei personaggi. Ma innanzitutto credo che sia un buon inizio cominciando a chiedere di te, della tua storia e della tua formazione.

Da ragazzino avevo due passioni e una mania: le passioni erano la lettura e i videogame, la mania era quella di cercare di prolungare esperienze di cui, dopo averle vissute, sentivo la mancanza. Pertanto, se un libro mi aveva travolto cominciavo a scriverne il seguito, solo per poterne leggere ancora; e se un videogame mi aveva divertito, mi mettevo a programmarne uno uguale.

Ovviamente non ho mai terminato nessuna di quelle storie né dei videogame (questi ultimi erano terribili: in uno c’era uno struzzo volante che sparava palle di fuoco dal becco e distruggeva alieni a forma di ostriche), ma mi sono reso conto che creare mi divertiva quanto leggere o giocare. Col tempo la passione per i videogame è scomparsa, ma è rimasta quella per la lettura, e ho continuato a scrivere storie, fino a farmi notare qua e là. Ho vinto alcuni concorsi per racconti e selezioni per antologie anche di case editrici importanti; in seguito sono stato ammesso a un workshop di scrittura creativa in RAI ERI; con il romanzo “sexOring” ho vinto il premio per la letteratura nel festival Dieci Lune e con “Brave Persone” il torneo ioScrittore. Nel frattempo, dopo essermi entusiasmato per le escape room, e dato che in Italia ancora non esistevano, mi ero messo a costruire escape room: sintomo che la vecchia mania di ricreare le cose che mi sono piaciute è dura a morire. E adesso sono arrivati “I Fuoriposto”, che hanno subito conquistato la Casa Editrice Corbaccio e la simpatia di moltissimi lettori.

Leggendo si nota la cura meticolosa nel ritrarre uno spaccato di vita nell’immediato dopoguerra in un territorio circoscritto: c’è stata molta ricerca storica oppure sono situazioni che derivano anche dalla vita vissuta delle persone dei luoghi?

Se uno fa una visita guidata di una città si rende conto, probabilmente, che le guide ogni tanto s’inventano aneddoti, storielle e significati, giusto per rendere più interessanti alcuni edifici, statue, iscrizioni o quant’altro. E a Lecce, la città in cui vivo, c’è un senzatetto che segue questi gruppi e ogni volta che una guida ne spara una grossa attacca a urlare: “Non è vero niente! Non è così! Sta dicendo BUGIE!”. Ovviamente, non appena la guida gli allunga un paio d’euro, il senzatetto la smette e si allontana a seguire un’altra comitiva, in cerca di sangue fresco.

A me è capitata una fortuna del genere: mentre studiavo i documenti storici sui Displaced Persons Camp, e ne ho studiati una tonnellata, conobbi un uomo che nel DP Camp di Santa Maria al Bagno c’era stato sul serio, uno che quei giorni li aveva vissuti e che, fortunatamente, aveva una gran voglia di raccontarli, anche a costo di inseguire la guida del museo dell’Accoglienza correggendo praticamente ogni sua affermazione. Perché quello che Vittorio, questo il suo nome, aveva da raccontare era molto diverso da quello che avevo letto sui libri. È stato attraverso gli aneddoti di Vittorio che ho appreso quei dettagli di vita quotidiana che rendono più realistica la ricostruzione di un periodo storico che, sebbene relativamente recente, resta di difficile interpretazione per via di una certa componente propagandistica che ne ha alterato le fonti. Vittorio, purtroppo, è venuto a mancare da un paio d’anni ormai, ma sono certo che se avesse potuto leggere il romanzo lo avrebbe apprezzato.

Tommaso, Umberto, Marcello e Giovanni sono i protagonisti assieme ai loro genitori o nonni. Hanno tutti caratteri e storie differenti e si battono per le loro idee. Qual è quello a te più affine?

Quand’ero ragazzino avevo una compagnia di amici non troppo diversa dai quattro fuoriposto. Eravamo quelli delle case popolari in un minuscolo paesino del salento negli anni ’80, e se questo non vi sembra sinonimo di desolazione non siete di queste parti. I ragazzini degli altri condomini popolari erano i nostri nemici giurati e ci davano la caccia, in paese tutti ci guardavano alzando un sopracciglio e allora preferivamo andarcene in giro per le zone vuote che circondavano il paese. Il mondo in cui vivevamo era molto più selvaggio di com’è oggi. C’erano meno case, meno auto, meno strade e più spazio per l’avventura. Guardavo dalla finestra di casa mia e vedevo solo terreni incolti e vuoti, che chiamavo “fine del mondo”. Quello era il nostro campo da gioco: la fine del mondo. 

I quattro protagonisti del romanzo provengono da quei ricordi, ma le loro personalità hanno subìto una robusta shakerata, sicché è impossibile dire quale di essi mi sia più affine, poiché lo sono tutti in una certa misura, o meglio: in ciascuno di loro c’è un pezzetto di me e un pezzetto di ciascuno di loro è dentro di me.

Ho letto che la storia di integrazione del Camp 34 è stata anche riconosciuta dal Presidente Ciampi come esempio di vita comunitaria. C’è qualche episodio particolare nella storia di Nardò che ci puoi raccontare?

La stura al riconoscimento della medaglia d’oro al merito civile alla città è stata data proprio dalla vicenda di Vittorio, l’uomo di cui parlavo prima: da ragazzino divenne amico di un rifugiato, un ragazzo di nome Jakob, e tra i due si formò un legame così profondo che Vittorio gli regalò la sua bicicletta, probabilmente la cosa più preziosa che un ragazzino potesse avere. Quasi sessant’anni dopo, nel 2001, Jakob tornò a Santa Maria al Bagno per riabbracciare l’amico Vittorio. La foto dei due con in mezzo la bicicletta fece il giro dei giornali e da allora si iniziò a parlare dell’accoglienza ai profughi ebrei.

Tuttavia, non dobbiamo dimenticare la lezione dell’archeologo più famoso del mondo, il professor Henry Jones, jr., che disse una volta ai suoi studenti: “L’archeologia si occupa della ricerca dei fatti, non della verità. Se è la verità che vi interessa, l’aula di filosofia è qui accanto.” E la verità circa l’accoglienza nel DP Camp di Santa Maria al Bagno è quantomeno controversa. 

L’idea che mi sono fatto è che i profughi vennero in contatto soprattutto con la povera gente, pescatori e contadini che continuarono a vivere nel Campo perché le loro non erano seconde case, gli inglesi non potevano togliergliele senza buttarli in mezzo alla strada. Erano persone così povere che i profughi stessi ne avevano pietà. Un rifugiato (che proveniva da Auschwitz, mica da St. Moritz) descrive così nelle sue memorie l’incontro con i salentini: “Gli abitanti del luogo erano ridotti alla fame. Per un pezzo di pane erano disposti a lavorare un giorno intero.” E Moshe Ron , un altro rifugiato, racconta nel suo memoir “Un’odissea dei nostri giorni” di un gruppo di bambini italiani e un anziano che si gettavano sugli avanzi dei pasti dei profughi, alla mensa. Quando uno dei bambini gli disse: “Non date cibo a quel vecchio, ché lo dà alle bestie”, Moshe Ron ci rimase malissimo: lui aveva sempre pensato che gli avanzi che i bambini si contendevano fossero per gli animali, e invece i bambini li portavano a casa per i fratelli e i genitori. Questo ci fa capire perché i salentini si avvicinarono ai profughi: questi ultimi il pane ce l’avevano, perché ce l’avevano gli angloamericani.

Tuttavia, questo matrimonio d’interesse e forzato si trasformò col tempo in vero e proprio amore. Le storie di amicizia come quella di Vittorio e Jakob ne sono la testimonianza; ce ne sono tantissime e ce n’è una che mi ha colpito: quella di una donna che regalò a una rifugiata che voleva sposarsi il proprio abito da sposa, e quella ragazza lo regalò a un’altra ragazza e così via, tanto che gran parte degli oltre trecento matrimoni che si celebrarono nel Campo videro la sposa indossare quello stesso abito, che è ora esposto nel museo dell’Accoglienza di Santa Maria al Bagno insieme ai murales di Zivi Miller, profugo adulto che si rese protagonista di una “fuitina” con Giulia, una ragazza di nemmeno sedici anni, che provocò un certo scandalo, oltre alle intemperanze del padre di Giulia e degli italiani suoi amici.

È importante capire però che quello che ci viene tramandato come un luogo di pace, amore e amicizia, manco fosse un campeggio di figli dei fiori, era in realtà un luogo turbolento dove si verificavano furti, omicidi, linciaggi. Gli stessi profughi, sebbene tutti ebrei, erano di nazionalità diverse: polacchi, ungheresi, romeni, ucraini. E gli ucraini fino a qualche anno prima avevano sparato sui polacchi al confine, non si poteva pretendere che andassero tutti d’accordo. Era una convivenza forzata in cui sicuramente fiorirono storie di amore, amicizia e accoglienza, ma in cui i contrasti erano anche aspri ed evidenti.

Ho la sensazione, avendo da poco terminato la lettura de ‘I fuoriposto’, che tu ti sia divertito nello scriverlo. Certi passaggi o certi dialoghi denotano una profonda ironia scanzonata che arriva diretta a chi legge. E’ stata una genesi fluida oppure no?

Avevo in mente di fare un libro d’avventura serio ma scanzonato. Per dire, i miei punti di riferimento erano “Il corpo” di Stephen King, “Vite pericolose di bravi ragazzi” di Chris Furhman e il film “I Goonies”. Ma la tematica dei profughi scampati alla Shoah era così delicata e scottante che non potevo correre il rischio di banalizzarla. Così scrivevo continuandomi a ripetere: “Serio. Dev’essere d’avventura ma SERIO!” 

Poi a un certo punto (me lo ricordo esattamente: per chi ha letto il libro, dall’incontro di Giovanni e Marcello con Pietro, l’uomo con una mano sola) la personalità di Libero Vola e Giovanni ha preso il sopravvento ed è tracimata, spazzando via ogni mio tentativo di controllo. È stato il loro impeto vitale e anticonformista che ha generato la carica di ironia che caratterizza il romanzo, e più di una volta, mentre scrivevo scene come quella del furto dei petardi o i capitoli finali che vedono protagonisti Giovanni e Marcello, sghignazzavo di brutto. In genere, la mia filosofia è: scrivi quello che ti piacerebbe leggere. Bene, quelle parti sono letteralmente volate sulla tastiera come se qualcuno me le stesse dettando nella testa, perché più ne scrivevo, più mi divertivo. E più ne volevo leggere.

Ringraziandoti ancora, ti chiedo se hai progetti futuri e se mai potremmo rivedere i quattro moschettieri all’opera in una nuova picaresca avventura!

Nel mio progetto, la vicenda del DP Camp numero 34 (e quindi non necessariamente dei quattro fuoriposto), necessita di tre romanzi per essere raccontata in maniera completa. La sfida, ovviamente, è fare in modo che ciascuno dei tre romanzi sia un libro a sé stante e possa essere letto anche senza leggere gli altri.

In questo momento sto lavorando sul secondo romanzo, che inizia esattamente dove finisce I Fuoriposto ma in cui il ruolo dei quattro, pur non essendo affatto marginale, è in un certo senso di supporto. Vi racconto di altri personaggi e altre avventure, sempre con una robusta dose di ironia che sdrammatizza le vicende, anche drammatiche, che si svolgono nel Campo.

Questo non significa necessariamente che il seguito di cui parlo vedrà la luce, ma i lettori stanno amando moltissimo i Fuoriposto, io sono molto soddisfatto di come sta venendo il nuovo romanzo, e questo mi rende fiducioso. Magari possiamo darci appuntamento già all’anno prossimo…

Nel frattempo, ti ringrazio moltissimo per aver letto il romanzo e per la bella intervista, e ringrazio tutti i lettori di thrillernord, che siano o meno arrivati a leggere fin qui!

Marina Toniolo

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